La Russia sta usando le risorse energetiche come un’arma

Esiste una correlazione statisticamente significativa tra freddo ed eccesso di morti in Europa. Più fa freddo, più aumentano i casi di morte dovuti a patologie cardiocircolatorie o secondari a casi di influenza. È da notare che il freddo fa statisticamente più morti del caldo, e che l’eccesso di morti che si ha a temperature minori è peggiore nei paesi caldi (come Italia, Portogallo, Spagna) che non in quelli freddi (come Germania, Finlandia, Norvegia). Ciò probabilmente perché nei paesi più freddi i sistemi di isolamento e di riscaldamento delle abitazioni sono migliori e più efficienti, e che nei paesi del nord la composizione demografica è meno anziana.

Esiste anche una correlazione storica statisticamente significativa fra aumento dei costi del riscaldamento e numero di morti.

L’Economist (https://www.economist.com/…/high-fuel-prices-could-kill…) utilizza un modello (basato sui dati precedenti e che risulta avere buone capacità predittive) per stimare l’effetto di questi costi energetici negli scenari di inverno meno caldo della media, medio e più freddo della media. Gli scenari sono prodotti considerando una proiezione dei costi dell’energia elettrica, comprendendo gli interventi statali per calmierare i costi e ipotizzando una stagione influenzale normale.

Le stime dell’Economist dicono che, rebus sic stantibus, avremo già un eccesso di morti anche in condizioni di inverno clemente. La situazione peggiora di molto in caso di inverno particolarmente rigido (335.000 morti in più rispetto alla baseline).

Il nostro paese, assieme alla Germania il più esposto all’arma energetica Russa, subirà probabilmente gli effetti più negativi rispetto agli altri paesi nella Ue, anche in termini di vite perse.

Il destino della Russia e quello dell’Italia

Nel suo recente libro L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia Andrea Graziosi, storico e accademico che si è occupato di storia ucraina, russa e sovietica del XIX e XX secolo, ci restituisce un quadro per nulla confortante della Russia, del suo presente e, quindi, del suo futuro. L’attuale Repubblica Federale Russia, depositaria di lasciti (buoni e, più spesso, meno buoni) di un passato imperiale che non ha trovato sostanziali soluzioni di continuità per secoli, sconta problemi, di portata secolare, che sono perlopiù istituzionali, culturali e antropologici. Questa malaugurata path dependence vincola in modo formidabile la politica russa verso una coazione a ripetere atteggiamenti e pulsioni proprie di un paese che ha fatto dell’imperialismo territoriale la sua ragion d’essere.

Alcuni osservatori, peccando a posteriori di eccessivo ottimismo, avevano ipotizzando una progressiva democratizzazione e trasformazione in senso liberale della Russia alla caduta dell’Unione Sovietica. Ma malgrado tutta la buona volontà nonché gli aiuti economici ricevuti dall’Occidente, la Russia (specialmente la Russia di Putin) è ripiombata nella coazione a ripetere, a rifiutare ogni cambiamento in seno alle proprie istituzioni, a covare livori rispetto all’odiato/invidiato Occidente, a seguitare a percepirsi e rappresentarsi come paese trattato ingiustamente, oggetto di (immaginari) desideri imperialistici di altri paesi, e mai riconosciuto abbastanza per la sua grandezza, culturale e storica.

Ma quali sono i caratteri, che potremmo definire psicologici e antropologici, di una simile path dependence?

  • Rifiuto del cambiamento;
  • Esaltazione di un passato favoleggiato ma spesso mai esistito;
  • Vittimismo;
  • Isolazionismo culturale, politico ed economico;
  • Xenofobia e odio per l’evidente “diverso” (razzismo, omofobia);
  • Complessi di inferiorità e, per compensazione, superiorità, in particolare per il passato “glorioso”.

Questi caratteri, piscologici e antropologici, sono alla base di ideologie politiche reazionare, se non francamente razziste e violente, come quelle che muovono la classe politica russa attuale. Ma come non vedere, mutatis mutandis, questi caratteri anche nell’intera classe politica italiana nonché nella stragrande parte degli italiani? In questo video (https://www.youtube.com/watch?v=j57ulqMztk0) Michele Boldrin affronta in qualche modo questo stesso argomento. Anche l’Italia, come la Russia, piuttosto che abbracciare il necessario cambiamento si illude di poter sopravvivere ricorrendo al manganello (politico e normativo) per cambiare l’esistente. Ma l’esistente è tetragono e irride a ogni scomposto tentativo ideologico e non pragmatico di cambiare la realtà. Questi caratteri, psicologici e antropologici, sono propri di un paese che sta declinando economicamente ma, soprattutto, biologicamente (non a caso Russia e Italia condividono una crisi demografica gravissima): sono sintomo di una malattia ben più profonda e che potrebbe non aver nessuna cura.

Esortazione a liberare l’Italia dagli italiani


Nel 1960 mia nonna paterna, da Melicuccà, paesino rurale in provincia di Reggio Calabria, faceva un lungo viaggio in treno verso la Liguria. Lì, in un paese in provincia di Savona, nella Riviera ligure di ponente, il marito, mio nonno Domenico, aveva trovato lavoro e predisposto un piccolo alloggio per la famiglia. Immagino mia nonna, la nonna Rosa, cercare di destreggiarsi alla meglio per non perdere le coincidenze che l’avrebbero portata finalmente a Ceriale, la destinazione del suo viaggio. Era la prima volta che usciva dal paese. Con lei portava due figli piccoli: Maria Domenica, di cinque anni, mia zia, e Giuseppe, di tre anni, mio padre. Posso solo immaginare le condizioni di quel viaggio: le sedute in legno, lo sferragliamento rumoroso dei vagoni, i treni affollati, le grida di bambini, il povero bagaglio da trasportare in una mano e i due figli a cui badare nell’altra. Mia nonna sapeva leggere l’orologio, sapeva scrivere il suo nome, ma era analfabeta. Parlava solo il dialetto calabrese. Era, invece, una cuoca strepitosa. Le bastavano pochi ingredienti – un petto di pollo, due uova, del pan grattato, tre melanzane, dell’olio extravergine d’oliva, una conserva di salsa di pomodori e, ovviamente, l’immancabile peperoncino – per creare qualcosa di speciale. I sapori e gli odori della sua cucina sono tra i ricordi più vividi e teneri della mia infanzia.

Agli immigrati del meridione d’Italia del tempo era riservato lo stesso trattamento riservato oggi agli immigrati stranieri: stipendi bassi, sfruttamento sul lavoro, razzismo. “Non diamo affitto ai meridionali” era una litania che si sentivano dire di continuo i “terroni” arrivati a centinaia di migliaia tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta nelle città industriali del nord, a Genova, Torino, Milano. L’Italia del tempo era un Paese laborioso e frugale, ma con la voglia matta di migliorarsi. Ciò che veramente importava era il pane e il futuro, e futuro voleva dire soprattutto figli: negli anni Sessanta e Settanta ogni donna italiana ne metteva al mondo, in media, tre. Mio padre ebbe la possibilità di portare a termine le scuole medie inferiori, dopodiché dovette andare a lavorare per contribuire all’economia della famiglia. Imparò il lavoro del panettiere, allora come oggi una professione richiesta ma che impone grandi sacrifici, a sé e ai propri familiari.

Mio nonno Domenico, bracciante agricolo in Calabria, carpentiere in Liguria, ebbe Giuseppe, mio padre, panettiere. In qualche modo sembrava essersi avviato lentamente il meccanismo intergenerazionale del miglioramento sociale: se il lavoro di mio padre avrebbe richiesto a lui e anche alla sua famiglia un sacrificio (come noto, il panettiere lavora la notte e il giorno deve giocoforza dormire), ciò era comunque ben accolto e legittimato dalle prospettive di miglioramento. Ma, in fondo, non c’era alternativa, era necessario farlo: la vita era sacrificio. Malgrado le umili origini e le incerte condizioni socioeconomiche della famiglia si poteva ipotizzare che anche i figli, io e mio fratello Giovanni, avrebbero avuto chances di miglioramento. Dagli anni Settanta in poi, come già accennato, nel Paese cominciarono a instaurarsi i presupposti del declino, concretizzatisi poi in una condizione di paralisi politica e istituzionale attribuibile a una classe politica delinquenziale e mafiosa che improntò la propria azione al clientelismo, al voto di scambio, alla conservazione di un miserabile status quo. Il Paese si arrese al suo funzionamento tribale e mafioso: i gruppi sociali dominanti, che divennero estrattivi, cominciarono a parassitare le ricchezze accumulate con il sacrificio di molti italiani nel secondo dopoguerra e a vivere letteralmente sulle spalle delle nuove generazioni, così come oggi perseguono a farlo, questa volta sulle spoglie esangui del Paese, sul poco che rimane e che puzza già di morto.

In Italia sono necessarie circa cinque generazioni prima che una persona appartenente al 10% delle famiglie più povere possa raggiungere il reddito medio del Paese. L’educazione, che dovrebbe essere lo strumento elettivo per la mobilità sociale, ha subìto disinvestimenti ma, soprattutto, è stata ostaggio dei sindacati e dello spirito reazionario che predomina nel corpo docente. La scuola italiana, anziché ridurre le distanze sociali, le crea7 e una certa dose di responsabilità di questo stato di cose è da attribuire ai docenti, i quali si oppongono, perlopiù per idiota automatismo ideologico, a qualsiasi cambiamento della scuola e del loro lavoro. Purtroppo, per come sono configurati gli incentivi nel Paese, il rent-seeking è il vero traguardo di ogni individuo appartenente a una società dal funzionamento tribale.

Per motivi attribuibili a fortuna e serendipità, io, Domenico, figlio di Giuseppe il panettiere, a sua volta figlio di Domenico il carpentiere, sono riuscito ad accedere a studi superiori: università e dottorato di ricerca. È vero, non ho fatto sicuramente la migliore università né ho fatto la migliore esperienza di dottorato, ma comunque accedere a tale livello di studi rappresenta un innegabile risultato positivo per una persona con la mia estrazione sociale. Ma, come detto, se sono riuscito a ottenere buoni e insperati risultati lo devo esclusivamente alla fortuna, all’intuito e a una certa dose di merito. O forse è stata la “cazzimma”, termine molto evocativo del dialetto napoletano a indicare un atteggiamento testardo e riottoso nel tentare di ottenere le cose, che nel mio caso si riduceva a una certa propensione a non accettare supinamente ciò che risuonava in me come una profezia: Sei destinato alla tua classe sociale e non potrai far nulla per migliorarti. La scuola, infatti, non mi ha aiutato. Il mio percorso scolastico, dalle elementari alle scuole medie superiori, è stato men che mediocre, e tutto faceva suppore che nulla avrei potuto fare per levarmi dal binario morto su cui sembravo saldamente instradato. Mi sentivo in balia di un destino idiota. Un’insperata e imprevedibile deviazione a questa rotta8, come detto, la imposero la fortuna e la “cazzimma”. E la fame. Sì, come mio padre, e prima di lui mio nonno, avevo fame di migliorare, e sebbene sentissi su di me incombente la profezia che seguitava a ricordarmi che per quanto mi fossi impegnato nulla avrei potuto fare per ottenere uno status sociale migliore, una parte di me vi si ribellava. La scuola, che avrebbe dovuto aiutarmi, la scuola progressista che aveva abdicato da tempo a un ruolo educativo fattivo, non faceva invece che ribadirmi, questa volta su un piano istituzionalizzato, la mia appartenenza irreversibile a una classe sociale inferiore. La scuola, malgrado la sua mission educatrice, non seppe dotarmi di strumenti culturali e nozioni sufficienti. Ho dovuto io stesso, negli anni, con notevole dispendio di energia, cercare di colmare le mie profonde e innumerevoli lacune. Quando mi diplomai all’istituto tecnico, all’atto di ritirare il mio diploma, provai una profonda vergogna per il mio stato di ignoranza e per quel fallimento vestito a festa.

Ho intuito precocemente, sin da molto piccolo, le differenze sociali tra le persone. Queste differenze non mi scandalizzavano, non recriminavo velleitariamente contro queste, ma le accettavo come un dato di natura. Ciò che dovevo fare, sebbene non fosse semplice, era provare a migliorarmi. Scambiare il binario, prima che fosse troppo tardi. Malgrado non fossi abituato a studiare, riuscii a superare con successo gli studi universitari, addirittura col pieno dei voti. Fui la prima persona a sorprendermi della mia capacità, evidente già nei primi anni, di superare gli esami con buoni voti. Malgrado avessi avuto serie e fondate cattive opinioni sulle mie capacità e sulla mia volontà, la “cazzimma” e la fame impressero un nuovo corso alla mia vita. In quegli anni avvenne lo scambio di binario: fu come se qualcuno mi avesse salvato all’ultimo momento prendendomi per i capelli.

Vedo ora il miserabile stato morale in cui versa l’Italia, i cui cittadini si sono persuasi che per ottenere un po’ di benessere non debbano sacrificarsi in prima persona, come mio padre, come mio nonno, come gli italiani del secondo dopoguerra, ma che debba essere lo Stato a adoperarsi al loro posto. Un Paese i cui politici, di destra come di sinistra, si sono fatti fautori di questa miserabile morale di parassitismo che spegne in ogni individuo qualsiasi afflato all’autonomia. Un Paese ormai distrutto economicamente dall’immobilità, l’incuria, l’ignoranza, e in cui l’idiozia di massa sta prendendo l’abituale forma dell’estremismo politico. Un Paese la cui classe media declassata, dall’asfittica mentalità piccoloborghese, provinciale, vittimistica, reazionaria, farisaica, essenzialmente fascista, cova insofferenze e risentimenti e si sta facendo irretire da arruffapopolo e pifferai il cui messaggio pedagogico è che la ricchezza può essere creata ex nihilo senza profondere sacrifici, senza dispendio di energia e intelligenza. Un Paese da cui i giovani migliori scappano a centinaia di migliaia. Un Paese in cui fare impresa è impossibile. Un Paese che non crea incentivi a produrre e che ne crea, invece, a iosa per non lavorare e per evadere le tasse. A essere furbi. Perché, come scrisse Prezzolini, il fesso, in Italia, si interessa al problema della produzione della ricchezza, mentre il furbo (diremmo oggi: il sovranista) a quello della ridistribuzione. Un Paese in cui l’ignoranza e l’irrazionalismo di buona parte della sua intellighenzia e di nuovi avventurieri della politica sta prendendo la forma di sciagurate offerte politiche così ben rappresentate da partiti e movimenti sovranisti e populisti, i quali sono la versione solo un poco più grottescamente estremizzata dell’inetta classe politica italiana. Sono una rampante accozzaglia di sciagurati volenterosi ciecamente votati alla distruzione d’Italia: sedicenti intellettuali e filosofi, aspiranti politici e statisti, giornalisti, opinionisti, legulei di provincia, docenti universitari cooptati, una galleria di maschere orrifiche e farsesche da avanspettacolo, di sedicenti patrioti dagli sguardi ebeti e invasati. Un Paese saldamente instradato su un binario morto che lo porterà allo spopolamento, all’impoverimento, a un declino inevitabile. Un Paese i cui giovani si sono in gran parte accontentati della loro meschina condizione di dipendenza dai genitori abbracciando uno stile di vita basato su aperitivi e consumi voluttuari (possibilmente a basso costo), e un orizzonte esistenziale ombelicale e asfittico. Un Paese profondamente ignorante, arrogante, velleitario, rancoroso, ma allo stesso tempo sazio, immobile, feroce e reazionario.

Come non sentire del tutto vana la speranza di uno scambio di binario per il mio Paese? Gli italiani, e solo loro, sono responsabili del loro stato di degrado morale: la questione è culturale e antropologica. Ma il problema a cui ci rivolgiamo potrebbe correre il rischio di non essere nemmeno più un problema. Un problema, per essere tale, deve essere risolvibile. Qualsiasi soluzione possiamo avere in mente potrebbe già essere postuma rispetto all’evento: a che pro una cura antibiotica se la rivolgiamo su un corpo ormai morto? Allora, che fare? Limitarsi alla libellistica e all’invettiva potrebbe essere un mero atto di testimonianza. L’unica possibilità teorica di risorgimento dell’Italia, l’unico modo per salvarla all’ultimo momento prendendola per i capelli potrebbe essere quello di dare finalmente alle forze vitali ancora superstiti nel Paese, rappresentate da giovani e immigrati volenterosi, la possibilità di sprigionare energie creative: solo la fame e il sacrificio possono creare futuro. La parte vecchia, sazia, parassitaria e reazionaria del Paese (non è solo questione anagrafica: molti sono i giovani dall’atteggiamento senile) dovrebbe essere per quanto possibile emarginata, e le risorse dello Stato dovrebbero essere stornate dai parassiti ai produttori. Solo una nuova configurazione di incentivi, che premi il merito e sanzioni i comportamenti antisociali (nepotismo, clientelismo, evasione fiscale, pratiche corruttive) può rimettere il Paese sul binario della modernità. Solo la superstite parte sana del Paese può liberare l’Italia dai barbari interni. Solo i giovani e le persone di buon senso possono sottrare l’Italia al suo destino idiota.

[Tratto da Sovranismo. Un destino idiota, 2022]

Il furto di reddito dalla popolazione lavoratrice continua

In un paese, l’Italia, che non cresce da 30-40 anni, in cui la crescita della produttività è piatta da 30-40 anni, in cui gli stipendi sono fermi da 30-40 anni, abbiamo ancora anticaglie automatiche, che andrebbero eliminate urgentemente, come l’adeguamento automatico all’inflazione delle pensioni.

Sia detto bene e chiaro: visto che la povertà è di gran lunga maggiore fra gli strati sociali rappresentati da giovani coppie con bambini, in questo paese feroce, ipocrita e irresponsabile si procede impunemente con la coattiva sottrazione di reddito da questi strati sociali a vantaggio di quelli relativamente più abbienti, rappresentati perlopiù dai pensionati italiani.

Per crescere economicamente e socialmente non esistono ricette magiche


Cercando di farmi strada nella cortina fumogena di provvedimenti estemporanei di un governo che ha confuso lo standing virile delle relazioni sociali e internazionali con la capacità di mettere il Paese sulla strada della ragionevolezza (per la quale sarebbero necessarie cognizioni economiche piuttosto che la retorica dei “pugni sul tavolo” o del “giro di vite” sul malcostume o sull’immigrazione, ché la sovranità di un paese attiene soprattutto alla sua capacità di creare ricchezza e non nelle maschie pose virili), ho visto con diletto e interesse i due video sulla straordinaria storia di Singapore, pubblicati su IngloriousGlobastards (https://lnkd.in/ddDSSQce), canale Youtube di Fabio Scacciavillani e Alberto Forchielli.

L’ospite, un italiano che vive a Singapore da molti anni, Roberto Tassinari, che si occupa di private equity e ha lavorato nel settore oil&gas e fondi di investimento, ci restituisce un’esaustiva storia di questo straordinario Paese: Singapore.

Singapore nasce come paese indipendente nel 1965 (dopo essere stato espulso dalla Malesia: vedi la pagina https://lnkd.in/dHYUNGxQ). Era ed è un Paese sprovvisto di risorse naturali, inclusa l’acqua dolce. Tralasciando i dettagli di questa irresistibile corsa verso i più alti standard economici (vedi la crescita del Pil pro capite rispetto al nostro), sociali e culturali di un paese nato poverissimo, possiamo nondimeno cercare di enucleare le condizioni necessarie perché una crescita economica e sociale possa avvenire in un paese.

·       apertura del paese ai mercati internazionali: un paese sprovvisto di risorse deve essere aperto al mercato internazionale;
·       allettanti condizioni per l’ingresso di capitali e aziende esteri;
·       un’amministrazione pubblica efficiente e leggera;
·       un sistema di esazione delle tasse ridotto all’osso in termini di adempimenti (in Singapore le tasse delle persone fisiche si pagano online, e non sono necessarie le gabelle di stato da versare al notaio per avviare un’azienda);
·       un capitale umano “pregiato”, prodotto da un sistema formativo all’altezza delle richieste del mercato del lavoro;
·       università di prim’ordine e investimenti cospicui in ricerca;
·       tolleranza zero rispetto alle pratiche corruttive;
·       un sistema giudiziario veloce.

Se applichiamo questi criteri all’Italia non possiamo che rimanere frustrati e disperati: un paese, come l’Italia, che si sta richiudendo in sé stesso e che non ha nessuna di queste caratteristiche necessarie a crescere economicamente e socialmente è destinato al declino. Nessuna ricetta magica, nessuna posa virile davanti ai nostri paesi partner, nessuna fantasia di riappropriazione di una mal compresa sovranità possano invertire la rotta imboccata dall’Italia.

Quali sono i gruppi sociali rappresentati e difesi dalla destra al governo e dai sovranisti? Gli improduttivi e i parassiti.

Ascoltando il discorso di Meloni non si può che restare costernati dalle aporie e dalle contradizioni. Da una parte il governo Meloni, per bocca della sua leader, dice di parlare a nome di “tutti” gli italiani e di voler lavorare per l’interesse del cosiddetto popolo, come se il cosiddetto popolo fosse un tutto omogeno e non avesse nel suo seno differenze, anche drammatiche, di stratificazione sociale ed economica. Dall’altra, più fattualmente, ha come scopo la protezione dell’economia improduttiva e dei goditori a vario titolo di rendite.

L’Inps rende noto che in Italia ci sono 22.785.711 pensionati. A questi vanno sommati circa 2,5 milioni di disoccupati e 3,5 milioni di dipendenti pubblici (la cui efficienza lavorativa è nota). A cui vanno ulteriormente sommati gli inattivi (che sono circa 13 milioni).
I servizi pubblici e il servizio del debito in questo paese sono finanziati da una risicata porzione attiva della sua popolazione.

Il governo Meloni e la rampante onda di aspiranti politicanti sovranisti (vedi “Italexit” e l’accozzaglia invereconda da avanspettacolo del grottesco “Italia sovrana e popolare“) sono rappresentanti di questi strati sociali: i passivi, i goditori di rendite, i parassiti, gli improduttivi (ossia coloro hanno piccole attività economiche che stanno in piedi perché evadono quasi totalmente le tasse; e che si avvalgono dei servizi pagati per loro da altri). Questa classe politica rappresenta la parte economicamente e culturalmente più arretrata e parassitaria d’Italia. Piuttosto che essere “rappresentanti dell’interesse popolare”, questo governo e tutti i sovranisti – che rappresentano, ahimè, la quasi totalità degli italiani – sono rappresentanti di alcune classi sociali a danno di altre.

Questo non sarebbe poi un grosso problema se le classi danneggiate (rappresentate da giovani istruiti, immigrati volenterosi, aziende produttive) non fossero le uniche classi sociali sane in un paese malato, le uniche che potrebbero fare qualcosa di buono, se solo avessero modo di farlo.

Il capo o, come si direbbe oggi, la capa della destra italiana oggi al governo è rappresentate di una visione paleolitica dell’economia italiana. La pàleo-capa Meloni, malgrado il piglio risoluto e guerresco, non riesce proprio ad avvedersi d’essere rappresentante della parte più retriva, reazionaria e dannosa del Paese. Questa mancanza di coscienza è risultato di una radicale mancanza di cultura, in particolare di cultura scientifica ed empirica. I politici italiani sono tutti ideologi pronti a negare qualsiasi evidenza pur di continuare a produrre danni e a procurarsi un posto al sole. Stanno, in fin dei conti, perseguendo una via alla mobilità sociale, la loro, in un paese in cui la mobilità sociale è ferma da quarant’anni.

Se ciò non vi persuadesse, date un’occhiata al volto di Meloni quando fa riferimento di essere stata un “underdog”, e vedrete una persona che, malgrado non abbia nessuna vera competenza e abbia strizzato l’occhio alla destra più retriva e fascista, nostrana ed estera, nell’ultimo decennio, ora mostra una soddisfazione, per nulla dissimulata, di aver ottenuto una tanto agognata mobilità sociale.

Il sovranismo è un sintomo di una malattia che si chiama economic unfairness

Ho letto un testo in cui viene echeggiato, in punta di dati e correlazioni, ciò che ho scritto in modo intuitivo, diciamo così “euristico”, in Sovranismo. Un destino idiota, che sarà pubblicato i prossimi mesi. Il testo in questione è Reclaiming Populism: How Economic Fairness Can Win Back Disenchanted Voters, di Eric Protzer e Paul Summerville. Se nel mio testo individuo intuitivamente le cause del sovranismo montante in Italia nella penuria di possibilità per nuovi soggetti economici (giovani, immigrati, aziende nascenti) di trovare spazio per stabilirsi e crescere, che causa a sua volta immobilità sociale, nel testo a cui faccio riferimento, utilizzando dati sui risultati elettorali e le condizioni socioeconomiche in alcuni paesi (Italia inclusa), gli autori individuano nell’economic unfairness le cause del populismo.

Con economic unfairness gli autori intendono né più né meno tutte le barriere (istituzionali, regolatorie, normative, sociali) che impediscono la creazione di una diffusa percezione presso la popolazione di un funzionamento meritocratico delle relazioni sociali. Se, per qualsiasi motivo, in una data società venisse meno l’incentivo a fare (a creare aziende, a farsi strada, a cercare di migliorare il proprio status sociale) perché le condizioni iniziali (condizioni della famiglia di origine, luogo in cui si vive, accesso a scuole e ospedali funzionanti) hanno un peso che soverchia la capacità di creare valore tramite il contributo individuale, allora l’elettorato di tale società sarà più incline a votare partiti populisti.

Se, come dicono gli autori, l’economic fairness è una condizione sociale a cui la nostra specie ha dato preminenza evolutiva perché condizione fondamentale alla creazione di reti socioeconomiche basate sulla collaborazione sempre più vaste e complesse, in un Paese, come l’Italia, in cui venisse meno, almeno in certa misura, tale condizione (che, si badi bene, è inscritta nella nostra stessa storia evolutiva sociobiologica) si diffonderebbe un tale livello di risentimento da scoraggiare la collaborazione. Ciò che importa alla gente, ciò che le fa nutrire sentimenti di insofferenza e risentimento non è tanto l’ineguaglianza per sé quanto l’ineguaglianza prodotta da condizioni di economic unfairness. Se, per esempio, una persona è divenuta molto ricca stando alle regole del gioco (non rubando, non approfittando degli altri, ecc.), questo non ingenera nelle persone sentimenti di odio e livore. Se, invece, la percezione generale della popolazione fosse che la ricchezza è solo questione di amicizie, conoscenze, giuste entrature e background familiare, allora tale situazione sarebbe percepita come unfair.

Nel nostro Paese l’incentivo a fare è ridotto ai minimi termini perché le condizioni iniziali (background familiare ecc.) e l’economic unfairness hanno un peso eccessivo rispetto al potenziale contributo individuale di creare valore. In altri termini, la nostra società è dominata da logiche nepotistiche e clientelari anziché democratiche e reward-driven. Se, come hanno riportato gli autori di questo libro, l’economic unfairness è statisticamente associata al populismo, il sovranismo nostrano è la sintomatologia di una malattia che si è andata cronicizzando negli ultimi decenni e che ora mostra segni di malignità.

Soltanto se creeremo un’Italia più meritocratica potremo rispondere alla cogenza largamente disattesa dell’Articolo 3 della Costituzione, che recita:

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Sovranismo. Un destino idiota

Il contrasto vero dei tempi nuovi come delle vecchie tradizioni non è tra dittatura e libertà, ma tra libertà e unanimità […].

Piero Gobetti, La rivoluzione liberale

Dopo quasi tre anni di lavoro, spinto tanto dal bisogno di mettere su carta i miei pensieri sul tema del sovranismo, quanto da una sensazione d’urgenza a cui il Paese ci ha abituati a convivere da più di dieci anni (a cui evidentemente nessuno può abituarsi del tutto) ho portato a termine questo libro. Il testo non è né un pamphlet polemico né un saggio di psicologica, di economia, di politica o di sociologia, ma qualcosa di tutti e cinque.

È un atto di resistenza morale e intellettuale al degrado morale e intellettuale in cui versa l’Italia e la cui ingravescenza è oggi evidente a tutte le persone di buon senso.

Condividerò anticipazioni sul libro, sviluppando temi e cercando di intavolare una discussione con le persone che vorranno condividere il loro pensiero.

Solo con una nuova configurazione di incentivi, che premi il merito e sanzioni i comportamenti antisociali (nepotismo, clientelismo, evasione fiscale, pratiche corruttive) può rimettere il Paese sul binario della modernità. Solo la superstite parte sana del Paese può liberare l’Italia dai barbari interni. Solo i giovani e le persone di buon senso possono sottrare l’Italia al suo destino idiota.

Da Sovranismo. Un destino idiota

Avversione alla scienza. Perché gli intellettuali italiani odiano il sapere scientifico.

La prima colpa che le faccio [alla cultura italiana] è di essere refrattaria alla storia naturale, d’ignorare le ere geologiche, il darwinismo, i classificatori del Sette e Ottocento, Malpighi e Spallanzani; la seconda è quella d’una scarsa predisposizione alla cultura economistica e matematica […]. Infine, la cultura italiana è fatta di toc-toc, d’impulsi, di batticuori, della retorica delle buone intenzioni. Manca un sottofondo logico e riflessivo. Non è appoggiata all’esperienza ma al cuore. Il livello dei lettori s’è alzato, ma solo in direzione d’un certo libertinismo, e con forti spinte amatorio-sessuologiche. È rimasta la repulsione verso le scienze biologiche, mediche e cliniche.

Carlo Emilio Gadda, Per favore mi lasci nell’ombra

Il nostro è per la stragrande parte un ceto intellettuale originante da una cultura accademica provinciale poco internazionalizzata e poco aperta alle correnti speculative straniere (in ambito umanistico ma anche in ambito scientifico), e che si è quindi marginalizzata dalla cultura europea e d’oltreoceano; e che, malgrado ciò, trova nel Paese, nelle redazioni dei giornali così come negli studi televisivi, spazio e audience.

Se nel loro pubblico, ossia la “gente”, le fantasie rivoluzionarie sono l’emersione confusa e mal diretta di un pur legittimo afflato di miglioramento, che tuttavia non trova sfogo se non nell’inconcludenza di svolte apocalittiche dell’esistente, queste stesse gesticolanti convulsioni palingenetiche gli autoproclamati intellettuali italiani vestono di un grottesco e muffito intellettualismo imbevuto di idealismo, irrazionalismo e “apocalittismo”, usandolo come un pietoso belletto retorico sulla grottesca inconsistenza intellettuale delle loro asserzioni.

I gravi ritardi del Paese rispetto allo sviluppo di un alfabetismo scientifico diffuso sono noti. Diversi autori si sono attardarti nello studio dei motivi per i quali l’Italia è, dal punto di vista della diffusione della cultura scientifica, un paese indigente. Dal punto di vista educativo nessuna riforma ha segnato un reale progresso nel livello di alfabetizzazione scientifica della popolazione italiana e la nostra scuola rimane ancorata sostanzialmente al profilo pedagogico gentiliano che voleva gli studi umanistici e classici in una posizione di indiscusso privilegio gnoseologico. L’immagine che questi ceti intellettuali hanno della scienza è quella di scienza asservita al capitalismo. La scienza in quanto tale, sotto il velo di un preteso oggettivismo e a-ideologismo, sarebbe l’occulto braccio ideologico del capitalismo o, si direbbe oggi, del neoliberismo. La scienza è, secondo costoro, ideologia, e come tale andrebbe lottata, ossia con le armi della retorica, dell’assiologia, dell’etica. È sufficiente porre alla mente l’ampio séguito che hanno avuto, nel corso della crisi pandemica, gli accessi retorici di Fusaro, Agamben, Cacciari e di molti altri, che hanno riempito quotidiani e siti internet della loro crociata contro la cosiddetta tecnoscienza dei cosiddetti “sieri” (sic) sperimentali e il Green pass, per rendersi conto di come la malattia italiana dell’avversione alla scienza sia un fenomeno carsico che ripercorre sotterraneamente tutta la cultura italiana e la sua tradizione culturale sdilinquita da provinciale autoreferenzialità e inane idealismo. La cultura italiana, stretta tra cattolicesimo da una parte e marxismo, hegelismo e gentilismo dall’altra, ha storicamente fatto della lotta contro la scienza e il progresso tecnologico la sua crociata d’elezione.

Ci si potrebbe chiedere del motivo per il quale il ceto intellettuale italiano sia così imbevuto di “irrazionalismo” o, a dir meglio, dell’avversione alla scienza. Che ci sia stato nel Novecento italiano un esplicito rifiuto della scienza e dei suoi esiti culturali e tecnologici è una tesi che trova ampio riscontro negli studi. Certamente non hanno giocato a nostro favore una serie di fattori, quali la forte arretratezza educativa e di sviluppo tecnologico-industriale dell’Italia che non ha mai seriamente posto l’urgenza della necessità di diffondere la cultura scientifica nella scuola e nella popolazione generale. Non potendo qui fare un’analisi approfondita del tema, che supererebbe non solo lo spazio di questo lavoro ma anche le energie e la preparazione di chi scrive, possiamo nondimeno provare a proporre alcune ipotesi. Due potrebbero essere i motivi, tra loro in vario modo interagenti, alla base dell’avversione alla scienza del nostro ceto intellettuale: i. la quasi completa ignoranza, da parte dei sedicenti intellettuali italiani (e del loro pubblico), di cosa sia effettivamente la scienza; e ii. la sensazione di inettitudine intellettuale derivante da tale ignoranza, che indurrebbe i sedicenti intellettuali italiani ad assumere una posizione di retroguardia e di vuota retorica contro la scienza e i suoi esiti culturali e tecnologici. Non potendo scendere alla discussione sul piano della cultura scientifica (non avendone gli strumenti), gli intellettuali italiani volgerebbero la discussione su altri piani. Non potendo competere con il fisico, il biologo, il medico, l’economista sul piano della cultura i suddetti intellettuali cercano di trarsi dall’impaccio indulgendo al “ricorso a formule generiche che non funzionano come strumenti interpretativi della realtà, ma solo come mezzi di intimidazione, tanto più efficaci quanto più si rivolgono a interlocutori poco provveduti”. Lo schema proposto è quello del Critico o dell’Oppositore, che si scaglia senza tentennamenti o dubbi contro il Male rappresentato, a seconda delle circostanze, dalla medicina, la tecnologia, l’economia o addirittura la modernità, al cui posto si vorrebbe sostituire un mondo ideale del tutto immaginato. L’immagine di intellettuale che ne risulta è quello di un profeta gesticolante che da immaginari roveti ardenti emette anatemi e profezie di disastro su un mondo in rovina poiché tetragono e recalcitrante a adattarsi alle sue idee. Il messaggio pedagogico risultante è, oggi come ieri, segretamente elitario, reazionario e classista. Se per padroneggiare una scienza necessita sì uno studio lungo e, talvolta, difficile e costoso, ma pur sempre alla portata di chiunque sia dotato di doti intellettive adeguate ma, dopotutto, medie, e sufficienti sostanze per pagarsi gli studi; il loro sapere rassomiglia invece alla sapienza esoterica trasmessa all’interno di conventicole orfiche i cui membri vengono cooptati tramite la partecipazione a riti segreti, come a Eleusi 1.500 anni prima di Cristo.

Perché Salvini avrebbe dovuto fare un’analisi SWOT

L’analisi SWOT è un utile strumento per avere un quadro sintetico e sinottico delle condizioni competitive di un’organizzazione, qualsiasi essa sia. In anni recenti la Lega ha spostato il suo “segmento di mercato” dalle istanze federaliste e indipendentiste del nord a quelle nazionali e nazionaliste. Da partito con una constituency ben previsa in regioni ben precise del settentrione a partito a vocazione nazionale e nazionalista. Mutatis mutandis, è come se un’azienda fosse passata da una specializzazione molto verticale su un set ben preciso di prodotti, che voleva vendere a un target ben preciso di clienti, a una che vuole vendere un solo prodotto a tutti, o comunque alla maggior parte delle persone. Il prodotto in questione può essere sintetizzato con l’espressione “l’interesse nazionale” o “l’interesse del popolo” o “il popolo contro le élite” (tralasciamo per un attimo che tali espressioni sono svuotate di un reale significato). Il partito è stato anche fortemente egemonizzato dal suo segretario, tanto che sotto il simbolo è stato scritto “Salvini premier”.

La Lega rappresentante di istanze nazionaliste si è trovata a competere con un partito, ossia i Fratelli d’Italia, che offriva il “prodotto” nazionalista “originale”. Il “prodotto” di Salvini è stato percepito dall’elettorato come un succedaneo. Inoltre la “base” di elettori del nord, rappresentato soprattutto da piccoli imprenditori e piccole aziende, si è sentita tradita dalla nuova versione nazionalista della Lega, e ha spostato i suoi voti sul partito di Meloni, la quale nel frattempo ha blandito questi gruppi sociali promettendo protezione commerciale e privilegi fiscali. Tuttavia, ravviso una dissonanza in tale travaso di voti: questa base elettorale, invisa allo statalismo e all’assistenzialismo, ha votato un partito dai forti accenti statalisti e poco incline alle legittime richieste di responsabilizzazione fiscale portate avanti dal nord d’Italia, che si sente (a ragione) la parte trainante di un paese altrimenti ampiamente improduttivo e viziato dall’assistenzialismo istituzionale.