Non lasciamo il tricolore ai sedicenti patrioti

Stamani mi sono dedicato al giardinaggio. Come notò Cicerone: «Se avrai un orto vicino a una biblioteca, niente altro ti occorrerà.» E difatti la mia vita ideale sarebbe proprio quella che contemplasse il passaggio da un buon libro alla cura del giardino. Intendo dire che la mia giornata ideale è quella in cui per un’ora o due leggo e per un’ora o due faccio giardinaggio, e questo fino a sera. Meneresti uno stile vita da pensionato, qualcuno potrebbe canzonarmi. Certamente, ma lo condurrei lo stesso, se non tutto l’anno, almeno per la metà. Stamani ho anche issato una vecchia bandiera italiana: l’ho ripulita, ne ho cambiato il bastone, l’ho assicurata alla ringhiera. Ne Le belle bandiere Pasolini scrisse: «Non si lotta solo nelle piazze, nelle strade, nelle officine, o con i discorsi, con gli scritti, con i versi: la lotta più dura è quella che si svolge nell’intimo delle coscienze, nelle suture più delicate dei sentimenti.» Fedele a tale suggestione richiamo a me stesso la necessità storica di sottrarre il tricolore ai sedicenti patrioti. Chi sono costoro?

In genere sono coloro che indulgono all’uso (spesso gridato) di parole quali popolo, giustizia, sovranità, Costituzione, e parlano volentieri di diritti e meno volentieri di doveri. Le loro asserzioni non sono mai supportate da fatti né da esperienze. Né superano talvolta il principio di non contradizione e altri requisiti della logica: sono delle petizioni di principio. Intendo dire che sono frasi che scaldano gli animi e, talvolta, i cuori, ma che lasciano freddo il cervello, e che pretendono d’essere vere per l’unico motivo d’essere state dette da loro. Spesso sono usate con intenti teppistici. Molte volte sentirete infatti gridare da questi sedicenti patrioti frasi come “Siete traditori della Costituzione!”, che usano come clave sulla testa dell’interlocutore, con cui non vogliono dialogare ma che intendono semplicemente ridurre al silenzio. Sono persone che confondono le condizioni di natura con veri e propri affronti ai cosiddetti diritti. Sono persone che hanno ritenuto il boom economico italiano la condizione minima dell’essere umano. Sono perfettamente persuasi che possa esistere un diritto all’opulenza e che alla realizzazione di tale diritto debba attendere lo Stato, mai loro in prima persona.

Questi sedicenti patrioti sono i distruttori del Paese. I quali si sono arrogati il diritto di monopolio sentimentale sul tricolore. È un’amara constatazione che i più pericolosi fautori della distruzione d’Italia si dichiarino coram populo patrioti.

È giunta l’ora di sottrarre il tricolore ai sedicenti patrioti.

Poesia come sintomo

C’è un fenomeno della biologia che prende il nome di ipertrofia compensatoria: se una regione dell’organismo – un rene, una parte del cervello, un muscolo – viene meno o per qualche motivo non funziona come prima, allora un’altra parte dell’organismo, ipertrofizzandosi, ne assume le funzioni. Persone colpite da ictus reimparano a parlare, arti anchilosati riprendono a camminare. La poesia è ed è stata per me la stessa cosa. L’incapacità a comunicare in maniera adeguata ha causato l’ipertrofia di un’altra parte. Il ritiro dal mondo, a cui indulgevo da bambino, ha prodotto la poesia. Non c’è nulla di notevole in tutto questo: è fisiologia. Avrei preferito di gran lunga comunicare come fanno gli altri. La poesia è, infatti, un buon modo per complicare il pane (Samuele Bersani). Pian piano mi accorsi che avrei potuto far finta di essere come gli altri: I’m not like them, but I can pretend (Kurt Cobain). La poesia è il mio modo elettivo per simulare una comunicazione. Non c’è nulla di amabile in un mezzo che complica il pane e che simula, complicandola, una comunicazione altrimenti semplice, come il pane. A che pro questa inutile sofisticazione? Avrei preferito abbracci.

[Poesia come sintomo].

E il mezzo è il messaggio (Marshall McLuhan): leggi un verso e non lo capisci. Lo rileggi e credi di capirlo. Pensi: non avrebbe potuto scrivere semplicemente così e così? Il mezzo è la poesia, il messaggio è: devi sforzarti di capire. Nessuno ha così tanta pazienza. Ci limitiamo ad aspettare il nostro turno. E spesso capire non basta. La poesia non è un mezzo per comunicare: la poesia è un gioco linguistico.

Avete mai fatto caso ai bambini immersi nel gioco? Ecco, la poesia, che è gioco linguistico, è come l’ipnosi del fachiro sul serpente. Il fachiro, solo e povero (dall’arabo faqir significa appunto “povero”), ipnotizza il serpente con l’oscillazione del suo flauto. Il poeta, diverso e solo, giocando con le parole ipnotizza e ammansisce il bambino che lo abita.

[Poesia come autismo].

Cortometraggio scritto e diretto da Domenico Lombardini & Brace Beltempo. Musiche di Paolo Traverso.

Dove siamo

Vedo ora il miserabile stato morale in cui versa l’Italia, i cui cittadini si sono persuasi che per ottenere un po’ di benessere non debbano sacrificarsi in prima persona, come mio padre, come mio nonno, come gli italiani del secondo dopoguerra, ma che debba essere lo Stato a adoperarsi al loro posto. Un paese i cui politici, di destra come di sinistra, si sono fatti fautori di questa miserabile morale di parassitismo che spegne in ogni individuo qualsiasi afflato all’autonomia. Un paese ormai distrutto economicamente dall’immobilità, l’incuria, l’ignoranza, e in cui l’idiozia di massa sta prendendo l’abituale forma dell’estremismo politico, che con ogni probabilità porterà a una progressiva messicanizzazione dell’economia del Paese. Un paese la cui classe media declassata, dall’asfittica mentalità piccoloborghese, provinciale, vittimistica, farisaica, essenzialmente fascista, cova insofferenze e risentimenti e si sta facendo irretire da arruffapopolo e pifferai il cui messaggio pedagogico è che la ricchezza possa essere creata ex nihilo senza profondere sacrifici, senza dispendio di energia e intelligenza. Un paese da cui i giovani migliori scappano a centinaia di migliaia. Un paese in cui fare impresa è impossibile. Un paese che non crea incentivi a produrre e che ne crea, invece, per non lavorare e per evadere le tasse. Per essere furbi. Perché, come scrisse Prezzolini, il fesso, in Italia, si interessa al problema della produzione della ricchezza, mentre il furbo a quello della ridistribuzione. Un paese in cui l’ignoranza e l’irrazionalismo di buona parte della sua intellighenzia e di nuovi avventurieri della politica sta prendendo la forma di sciagurate offerte politiche peroniste così ben rappresentate da partiti e movimenti sovranisti e populisti, i quali sono la versione solo un poco più grottescamente estremizzata dell’inetta classe politica italiana. Sono una rampante accozzaglia di sciagurati volenterosi ciecamente votati alla distruzione dell’Italia: sedicenti intellettuali e filosofi, aspiranti politici e statisti, giornalisti, opinionisti, legulei di provincia, docenti universitari cooptati, una galleria di maschere orrifiche e farsesche da avanspettacolo, di sedicenti patrioti dagli sguardi ebeti e invasati. Un paese saldamente su un binario morto che lo porterà allo spopolamento, all’impoverimento, a un declino inevitabile. Un paese i cui giovani si sono in gran parte accontentati della loro meschina condizione di dipendenza dai genitori abbracciando uno stile di vita basato su aperitivi e consumi voluttuari (possibilmente a basso costo), e un orizzonte esistenziale ombelicale e asfittico. Un paese profondamente ignorante, arrogante, velleitario, rancoroso, ma allo stesso tempo sazio, immobile, feroce e reazionario.

L’innovazione come valore sociale

La storia economica, con particolare riferimento al periodo compreso tra lo sviluppo economico moderno e i nostri giorni, ha individuato delle “costanti” che spiegano la diffusione del benessere economico in ampi strati della popolazione. La prima rivoluzione industriale, che dall’Inghilterra del Settecento prese poi a diffondersi in Germania, Francia, Olanda, Stati Uniti d’America e, tardivamente, anche in Italia, fu il vero “turning point” che, con tutte le contraddizioni e gli squilibri del caso (ambientali, sociali, culturali), permise a milioni di persone di affrancarsi dagli stenti e agli Stati (che al tempo cominciavano a configurarsi in Stati-nazione) di abbozzare sistemi di welfare. Il welfare state, infatti, è il prodotto diretto di un rivoluzionario cambiamento delle condizioni materiali della società che è stato reso possibile dall’industrializzazione. Le società in epoca pre-industriale scontavano la cosiddetta “trappola malthusiana”: le risorse (soprattutto alimentari) erano troppo poche (in quanto i processi produttivi erano troppo poco efficienti) per poter sostenere la crescita della popolazione. Ma dalla rivoluzione industriale in poi assistiamo nei Paesi a industrializzazione precoce un aumento costante della crescita demografica. Ma, in essenza, cosa ha reso possibile questo tumultuoso processo di crescita economica? In fondo, soltanto una un cosa: l’innovazione.

L’innovazione è la vera “causa” della crescita economica, ben più della mera concorrenza in condizioni di panorama tecnologico costante. Le società più aperte e liberali (non a caso la rivoluzione industriale iniziò in Inghilterra) sono quelle che storicamente ma anche oggi hanno registrato e registrano tassi di crescita superiori. L’innovazione ha, quindi, un profondo valore sociale, perché è profondo il suo impatto positivo sulle condizioni di vita della popolazione. La politica e le regole che si dà una società dovrebbero essere quindi permissive a un dispiegamento per quanto libero e agevole delle forze innovative sprigionate dall’azione umana.

Oltre alle regole che presiedono alla creazione di un ambiente concorrenziale opportuno (è noto che le società economicamente meno libere producono meno innovazione e meno crescita economica, e l’Italia, purtroppo, figura al 57° posto nel ranking dell’Indice di libertà economica del 2022, con la poco lusinghiera definizione di “economia parzialmente libera”), l’incentivo a innovare è anche mantenuto da un regime di protezione legale degli asset intangibili aziendali. Questi, come noto, possono essere rappresentati da brevetti, marchi e design. L’azienda è incentivata a investire in ricerca e sviluppo perché questo le può conferire una maggiore competitività sul mercato di riferimento, in quanto, in forza del titolo legale di protezione, stabilisce un regime di monopolio transitorio su quel determinato mercato. La protezione della proprietà intellettuale delle aziende può quindi essere una strategia importante per difendere la loro posizione sul mercato di riferimento oppure per tentare di “insidiare” la posizione dominante dei concorrenti.

Malgrado le croniche e storiche difficoltà del Paese a innovare, l’Italia ha visto in anni recenti un aumento apprezzabile delle iniziative delle aziende volte alla loro protezione intellettuale. Malgrado la crisi pandemica, il recente report dello UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi) ha indicato un trend positivo del numero di domande di brevetto per invenzione industriale depositate in Italia. Il numero dei depositi nel 2021 sono stati pari a 11.031 a fronte di 10.129 nel 2020. Per confronto su un arco di tempo più ampio, nel 2012 le domande di brevetto sono state 9.210. Il nord-ovest e il nord-est del Paese “producono” assieme quasi il 70% di tutte le domande di brevetto.

Si registra un simile trend positivo per le estensioni europee di brevetti italiani, ossia per le domande di brevetto europeo di richiedenti italiani presso l’EPO (Europen Patent Office). Nel 2021 l’Italia, infatti, “piazza” l’aumento percentuale maggiore (+6,5%) dopo quello della Svezia (+12%) rispetto al 2020. Attualmente, il nostro Paese ha il 3% di tutti i depositi EPO. Per confronto, la Germania ha il 14% e la Francia il 6%. Si noti che paesi più piccoli del nostro come i Paesi Bassi e la Svizzera hanno una quota simile alla nostra (rispettivamente 3 e 4%), a testimonianza di un tessuto economico molto innovativo di quei paesi.

Molti osservatori hanno individuato il “male” dell’Italia con un’espressione icastica: “la trappola dei salari bassi”. Sebbene possa avere il suono di una condanna senza appello o, peggio, di una profezia, dalla trappola dei salari bassi il nostro Paese può, anzi deve uscire. Il livello degli stipendi italiani è mediamente basso perché il tessuto produttivo italiano è mediamente poco produttivo. La produttività del lavoro (ossia il valore aggiunto per ora lavorata) è ciò che spiega il livello dello stipendio: maggiore è la produttività del lavoro, maggiore sarà il livello di stipendio. Negli anni del boom economico, tradizionalmente individuati tra il 1958 e il 1963, ossia il periodo in cui la crescita economica del Paese espresse la maggior forza propulsiva, i salari aumentavano perché la produttività aumentava di due cifre ogni anno.

Perché non possiamo applicare oggi le stesse “ricette” del boom economico? In primo luogo, perché non possiamo più giovarci dell’inurbamento di milioni di persone, perlopiù contadini con basso livello di istruzione “trasformati” in operai nelle aziende fordiste del tempo. In secondo luogo, perché oggi il tessuto delle economie sviluppate non è più fordista e ad alta intensità di lavoro manuale, bensì è basato sull’economia della conoscenza. Ma quando un’economia ormai matura si blocca in uno “stallo” pluridecennale della produttività, che è il caso dell’Italia, ciò è sintomo che la sua capacità sociale di produrre buon capitale umano e, quindi, innovazione, si è per qualche motivo “inceppata”.

L’Italia, malgrado questi gravi problemi, che si sono cronicizzati negli anni, riesce ancora a esprimere segni di vitalità. Il numero crescente di domande di brevetto nazionali ed europee ne è un segno inequivocabile. Le politiche per gli anni a venire dovranno essere rivolte ad aumentare strutturalmente il grado di innovazione del Paese, ma ciò dovrà passare necessariamente per due vie. La prima è aumentare il numero di laureati e persone con dottorato di ricerca (siamo alle ultime posizioni in Europa), soprattutto in materie tecnico-scientifiche. La seconda è liberalizzare i mercati dei servizi e delle professioni, migliorare l’efficienza della magistratura, e in generale creare un business environment permissivo alla creazione e alla crescita di imprese innovative. Perché richiamare all’importanza di perseguire l’innovazione tecnologica non è un vuoto argomento retorico, bensì l’unica via per la giustizia sociale.

Liberalizzare i servizi è una delle priorità del Paese

I sovranisti, cioè quasi tutti gli italiani, politici e non, proteggono il privilegio dei pochi a scapito del bisogno di lavorare dei tanti, e concorrono alla decadenza nazionale.

L’Indice di libertà economica (https://lnkd.in/ehCdjjPk) è correlato con la ricchezza dei paesi. L’Italia è, nel 2022, al 57esimo posto al mondo, lontanissima dai paesi più liberi e ricchi. L’Italia è un paese “moderatamente libero” e, come tale, condivide con gli altri paesi “moderatamente liberi” le stesse difficoltà di crescita economia.

Cos’è la libertà economica?
La libertà economica è il diritto fondamentale di ogni essere umano di controllare il proprio lavoro e le proprie proprietà. In una società economicamente libera, gli individui sono liberi di lavorare, produrre, consumare e investire in qualsiasi modo vogliano. Nelle società economicamente libere, i governi consentono al lavoro, ai capitali e alle merci di muoversi liberamente e si astengono dalla coercizione o dalla costrizione della libertà oltre la misura necessaria per proteggere e mantenere la libertà stessa.

Quali sono i vantaggi della libertà economica?
La libertà economica porta maggiore prosperità. L’Indice della libertà economica documenta la relazione positiva tra la libertà economica e una serie di obiettivi sociali ed economici positivi. Gli ideali di libertà economica sono fortemente associati a società più sane, ambienti più puliti, maggiore ricchezza pro capite, sviluppo umano, democrazia ed eliminazione della povertà.

Correlazione tra libertà economica e GDP per capita

Come si misura la libertà economica?
Misuriamo la libertà economica sulla base di 12 fattori quantitativi e qualitativi, raggruppati in quattro grandi categorie, o pilastri, della libertà economica:
– Stato di diritto (diritti di proprietà, integrità del governo, efficacia giudiziaria)
– Dimensione del governo (spesa pubblica, carico fiscale, salute fiscale)
– Efficienza normativa (libertà degli affari, libertà del lavoro, libertà monetaria)
– Mercati aperti (libertà commerciale, libertà di investimento, libertà finanziaria)

Un paese inventato: la versione sovranista della realtà

Nel libro L’Italia nell’Unione Europea. Tra europeismo retorico e dispotismo “illuminato”, Stefano D’Andrea ci offre la sua visione dell’Italia e dei suoi mali. Sebbene qui non abbiamo lo spazio per una puntuale confutazione degli argomenti del libro, vorremmo tuttavia restituirne il messaggio fondamentale.

Il testo, per dimostrare la tesi dell’attribuzione del declino economico italiano all’adesione a politiche di vincolo esterno, propone un semplice messaggio: l’Italia, aderendo ai vari trattati internazionali, ha perso prerogative e sovranità (controllo del flusso di capitali, sovranità monetaria, protezionismo commerciale, controllo del tasso di sconto, dipendenza della Banca d’Italia dal potere esecutivo), e tale condizione di cose è stata essa stessa la causa del declino economico nazionale. A parere dell’autore, nessuno, ai tempi della stipulazione dei trattati, ha portato avanti una discussione (in parlamento o sui giornali) su questi gravosi temi né, tantomeno, nessuno (nemmeno la Corte costituzionale) ha posto pregiudizi e obiezioni. Ora, i fortunati lettori de L’Italia nell’Unione Europea. Tra europeismo retorico e dispotismo “illuminato” possono giovarsi della rivelazione dal roveto ardente di D’Andrea, il quale, solo, ha compreso tutto. Dove gli altri, insigni studiosi, costituzionalisti ed economisti, italiani e stranieri, hanno fallito per imperizia, ingenuità o, soprattutto, organicità al mefistofelico progetto europeista, D’Andrea invece grida il suo Eureka! proponendoci l’uovo di Colombo: è tutta colpa dell’Unione europea! L’autore è, come detto prima, professore di diritto privato, non è quindi un costituzionalista né, tanto meno, un economista. E difatti il testo non supererebbe il vaglio di uno studente al terzo anno di economia e di qualsiasi persona che abbia fatto studi di economia monetaria e politica economica. O che sappia cos’è il bilancio dello Stato e quali sono i driver della moderna crescita economica. È pretestuosa e capziosa l’attribuzione anacronistica di afflato ideologico a comportamenti, decisioni e azioni di uomini che, decenni fa, hanno portato avanti un’azione politica, giuridica e tecnica volta a creare gli organi sovranazionali come la CECA, il Trattato di Roma, il Trattato di Maastricht. Non sfiora l’autore che è prima di tutto la temperie del tempo a informare l’agire politico, e che come oggi il sovranismo ideologico, politico ed economico imperversa nelle vuoto spinto cranico di milioni persone, al tempo si comprese che il libero commercio tra nazioni, che fino a poco prima si erano letteralmente distrutte a vicenda, era l’unica base razionale su cui fondare una pace durevole (altro discorso capzioso del nostro: nelle discussioni preliminari ai trattati nessuno avrebbe detto che la maggiore integrazione economica avesse come scopo quello di scongiurare la guerra, ma è del tutto evidente che il fatto di agevolare il commercio internazionale fosse – e fattualmente è – funzionale allo scongiurare le guerre, e che per far ciò si debba procedere a un’uniformità normativa tra i diversi paesi all’interno dello spazio di libero commercio). È del tutto evidente, poi, che ogni azione politica necessiti di un’opera di propaganda: così come il nostro, per il tramite del suo partito, diffonde e propugna un’ideologia, allo stesso modo fecero i fondatori della politica, del diritto e delle istituzioni europee. Siamo in democrazia, ed è necessario che il politico cerchi di persuadere i cittadini circa la bontà delle sue intenzioni. Altrimenti, si tratterebbe di dittatura, e le scelte verrebbero semplicemente calate dall’alto. Pertanto, ammettendo per un attimo la bontà della ricostruzione di quanto proposto (anche se non credo che un costituzionalista lo possa fare, né tra l’altro l’hai mai fatto) e, soprattutto, della supposta incompatibilità tra dettato costituzionale e trattati europei, i fondatori delle istituzioni europee fecero quanto era in loro potere per raggiungere l’obiettivo, evitando per quanto possibile di incorrere in defatiganti e spesso ideologiche controversie nazionali (alimentate da inconcludenti azzeccagarbugli…). Ma quale fu il risultato tangibile della stipulazione dell’Italia del Trattato di Roma del 1957? Il boom economico italiano: questa sì una vera rivoluzione, che proiettò l’Italia, nell’arco di qualche decennio, da una situazione di secolare stagnazione e sottosviluppo nel novero dei paesi più industrializzati e più ricchi al mondo.

L’autore ammette (pag. 79) che furono assai scarse le ricadute pratiche del supposto ruolo costituente della Corte di Giustizia, surrettiziamente reso possibile dalla lacunosità dei trattati. Ma che furono assai più gravi con gli altri trattati, che si sarebbero succeduti negli anni. Come se il percorso di una sempre maggiore integrazione europea fosse stato, ex ante, prevedibile, assolutamente ingombro da ostacoli, fatalmente e teleologicamente rivolto all’inevitabile creazione dell’Unione europea. Argomento capzioso e “complottistico” (più volte presente nel libro in altri contesti) che non meriterebbe commento, se non fosse dichiarato apertis verbis da un professore universitario con velleità da statista.

Ma dove sono i legami fra questa azione rivoluzionaria, ovverosia l’azione dei politici europeisti, e la decadenza economica d’Italia? Qui la protervia dell’autore fa strame di tutto ciò che la letteratura economica e sociale ci dice da anni circa i motivi alla base della decadenza pluridecennale del Paese. Dopo aver preteso di dimostrarci il procedere dispotico delle istituzioni europee, ecco che il nostro, come già anticipato, si lancia in sperticate analisi economiche sul controllo del tasso di sconto, la capacità dello Stato di mantenere bassa la disoccupazione con uno schiocco di legge (sic), la volontà deliberata della Ue di mantenere elevato il tasso di disoccupazione in tutti i paesi membri, non citando pubblicazioni ma riportando dati e numeri, quindi peccando di imperdonabile imperizia: se non sei esperto di un determinato tema, devi giocoforza rifarti agli “esegeti”, agli esperti e ai loro contributi. Solo così è possibile individuare eventuali nessi casuali, perché, altrimenti, se torturi i dati questi alla fine dicono quello che vuoi che dicano. D’Andrea, invece, vuoi perché non ha una formazione da economista, vuoi perché sa perfettamente che l’intera messe di pubblicazioni che si sono occupate di declino italiano indicano in ben altre origini i mali italiani, non cita studi (né, fatto da sottolineare, ringrazia nessuno per aver letto il suo manoscritto; sarebbe stato consigliabile far leggere il testo a un esperto di diritto costituzionale e a un economista prima di pubblicarlo…) ma si veste da esperto, candendo in inevitabili castronerie e complottismi economico-politici. Perché tutto ciò? Perché il libro è stato deliberatamente progettato e costruito con lo scopo di confermare la tesi del suo autore. In sintesi, un libro tendenzioso (biased), perché ideologico, decentrato, perché non va al cuore dei reali problemi del Paese, e apodittico, perché non è in grado di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che le argomentazioni addotte sono fondate empiricamente, logicamente conseguenti e non contradittorie, quando non sono delle semplici menzogne.

Da no-vax a pro-Putin: l’idiota coerenza dei sovranisti

I sovranisti sembrano aver preso la crociata di propalare idiozie e falsità in contesti in cui la propalazione di tali idiozie e falsità rappresenta un danno oggettivo per l’intera cittadinanza. Proprio loro, che tastano il polso delle masse e se ne rendono i primi demagoghi sono i principali responsabili dell’abbruttimento del cosiddetto popolo. È degno di nota e fonte di sbigottimento (ma non troppo, a pensarci bene) che le stesse figure più o meno rientrabili nella vasta galassia sovranista, che hanno diffuso spudorate menzogne nel corso della pandemia, sono le stesse che hanno diffuso (e che stanno diffondendo) spudorate menzogne nel corso della guerra di conquista della Russia ai danni dell’Ucraina. Statistiche hanno dimostrato che individui rientranti nella definizione di “no-vax” si sono presto convertiti a fautori (più o meno dichiarati) di Putin e della sua guerra di conquista in Ucraina. A scanso di equivoci, qui non si adotteranno eufemismi e antifrasi per individuare realtà crude e ormai del tutto manifeste ad occhi non ideologizzati: così come la pandemia è stata una tragedia con una magnitudo del tutto simile a quella dell’influenza spagnola del secolo scorso (si stima che i morti, a fine pandemia, potrebbero essere nell’ordine dei 25 milioni in tutto il mondo), allo stesso modo la guerra della Russia in Ucraina è del tutto simile alle guerre di conquista del secolo scorso (uccisione indiscriminata di civili, stupro usato come strumento bellico, deportazioni, confisca di beni, rastrellamenti, la peggiore crisi umanitaria europea dal secondo dopoguerra). Così come propalare idiozie e menzogne nel corso della pandemia ha certamente causato un danno sociale (incluse morti evitabili), allo stesso modo propalare idiozie e menzogne nel corso della guerra della Russa in Ucraina ha significato e tuttora significa minare alle fondamenta le democrazie liberali occidentali e il loro futuro.

Qui non abbiamo lo spazio per fare uno studio approfondito sull’atteggiamento dei sovranisti rispetto alla crisi pandemica, ma valga il “caso” Green pass per esemplificare come vaste porzioni della popolazione, che include la risicata ma sciaguratissima e dannosissima intellighenzia italiana, si siano approcciate a questo problema. Una nota preliminare: chi scrive ha giudicato severamente le politiche “no-Covid” adottate dal governo Conte nel nostro Paese per la gestione della pandemia. Ex post, queste politiche, che avrebbero conferito al Paese uno dei più alti Stringency Index al mondo (il Stringency Index è una misura composita basata su nove indicatori di risposta tra cui la chiusura delle scuole e dei posti di lavoro, limitazioni allo spostamento delle persone ecc., su una scala da 0 a 100), non solo si sono dimostrate inutili, ma c’è motivo di pensare che abbiano avuto (altro caso di eterogenesi dei fini) effetti opposti rispetto a quelli che si intendeva perseguire, ossia che siano state esse stesse responsabili di un incrudimento della situazione sanitaria (per tacere della situazione economica, sociale e psicologica della popolazione). In Italia (ma anche altrove) non sono stati seguiti i protocolli internazionali per la gestione di una crisi pandemica né si sono adottate politiche data-driven per l’adattamento in itinere delle misure alle mutate condizioni, come ben illustrato nello studio di Piero Stanig e Gianmarco Daniele. Ma molte persone, inclusi gli avvelenatori dei pozzi, ossia i sovranisti e altri ciarlatani, hanno confuso la scriteriata gestione della pandemia da parte di una classe politica di inetti con l’assunzione che tutte le misure e le contromisure adottate e ricercate fossero da rifiutare in blocco. Invece di distinguere caso da caso, come intelligenza vuole, molti hanno rifiutato la cosiddetta narrazione mainstream e abbracciato il complottismo paranoico. Ciò è del tutto normale: infatti, per la distinzione caso da caso è necessaria l’intelligenza, mentre per il manicheismo basta essere sovranisti. Tra queste misure rientravano i vaccini, ossia il vero e incontestabile successo tecnico registrato nel corso della pandemia da Covid-19. Mai nella storia umana è stato possibile portare a successo un simile sforzo di ricerca e sviluppo, per tacere della logistica necessaria a somministrare miliardi di dosi di vaccino in tutto il mondo. La diffusione di idiozie e menzogne sui vaccini ha certamente causato una certa esitazione a vaccinarsi, specie in strati sociali culturalmente ed economicamente indigenti. I propalatori di tali menzogne, inclusi i sovranisti, hanno quindi sulla coscienza un numero non quantificabile di morti evitabili.

È altresì opinione di chi scrive che il Green pass avrebbe dovuto essere accantonato presto o almeno non appena ci si fosse resi conto che l’esitazione a vaccinarsi era una tendenza marginale (ma non trascurabile) della popolazione. Il governo, incluso il governo Draghi, ha deciso altrimenti. I sovranisti, dopo aver diffuso menzogne sui vaccini che si sono rivelate in seguito tali, anziché concentrarsi sui reali problemi del paese, ossia quelli socioeconomici, hanno cavalcato l’onda del Green pass concorrendo a un’ulteriore polarizzazione dell’opinione pubblica e portando avanti, nemmeno molto surrettiziamente, posizioni no-vax (o che venivano interpretate tali dalla popolazione). La coazione a ripetere della reductio ad Hitlerum aveva individuato un nuovo oggetto: il demoniaco Green pass, fonte di ogni iniquità.

In linea generale, il Green pass veniva rifiutato non solo perché era considerato una misura liberticida, ma perché, si badi bene, si riteneva scientificamente infondato. Chi non era d’accordo e protestava contro l’adozione del Green pass per l’accesso a vari servizi (pubblici e privati) doveva necessariamente negare una o più delle seguenti proposizioni:

  • il vaccino protegge sostanzialmente il singolo individuo vaccinato da contrarre una forma grave della patologia;
  • i vaccinati hanno una probabilità notevolmente inferiore di contagiare altre persone;
  • il rischio del vaccino, estremamente basso, è ampiamente compensato dai benefici individuali.

Malgrado tutte questo proposizioni fossero vere perché scientificamente dimostrate, i sovranisti proseguivano nella loro crociata idiota contro la scienza contestando i dati.

Sono evidenti i vantaggi collettivi del perseguire una vaccinazione di massa, sia in termini di minore carico sanitario (e anche di tasso di mortalità), sia in termini di costi economici (evitando o comunque riducendo le chiusure). Ne La logica dell’azione collettiva, Mancur Olson, studioso delle dinamiche dei gruppi e autore già citato prima, tratteggia un modello comportamentale dei gruppi che si adoperano per il raggiungimento di un bene collettivo. In estrema sintesi, l’autore illustra, in modo serrato e conseguenziale, che i gruppi piccoli riescono a ottenere con maggiore probabilità e in misura adeguata un bene collettivo (collettivo rispetto al gruppo cui fanno parte e non alla totalità dei cittadini) perché ciascun membro può contrattare direttamente con ciascun altro, e in quanto l’apporto di ciascun membro è percepito non come “una goccia nel mare” ma come uno sforzo che ha un peso apprezzabile nell’economia del gruppo. Tutto ciò non è applicabile ai gruppi di più grandi dimensioni. In questi, i potenziali membri non sarebbero motivati a prendere parte al gruppo né i membri sarebbero indotti all’azione e al sacrificio personale (anche economico, ad esempio con una quota d’iscrizione a un sindacato) se non dietro la promessa e l’ottenimento di un bene individuale (un servizio, una prestazione ecc.) e/o dietro coercizione. Questo accade perché il membro del gruppo di grandi dimensioni vedrebbe il proprio apporto come “una goccia nel mare” e penserebbe che, anche in assenza di un suo apporto al gruppo, il bene collettivo sarebbe lo stesso raggiunto per l’azione degli altri membri. Per lo stesso motivo, le tasse sono coercitive e non affidate alla liberalità del singolo cittadino.

Assumendo come buona la teoria del funzionamento dei gruppi che si adoperano per l’ottenimento di un bene collettivo su tratteggiata, la si potrebbe applicare al caso del Green pass. In questo caso, il bene collettivo sarebbe quello della riduzione dei contagi e, soprattutto, dei casi gravi. Tale bene collettivo sarebbe conseguibile tramite una vaccinazione estesa della popolazione. Secondo il modello di Olson, i cittadini della nazione, che rappresentano un gruppo di grandi dimensioni, non possono adoperarsi senza alcun tipo di incentivo (tranne riconoscere un vantaggio individuale a vaccinarsi) o coercizione a dare il proprio contributo per il conseguimento del bene collettivo (il calo di contagi/morti, la riduzione della probabilità di chiusure): per vari motivi (egoismo, credenze errate, ignoranza, ecc.) alcuni cittadini potrebbero non essere d’accordo con l’adozione del Green pass. Tra questi, molti potrebbero pensare che anche senza il loro contributo il bene collettivo sarà lo stesso ottenuto. In questo caso, come prevede il modello di Olson, il governo ha dovuto introdurre una forma di “incentivo coercitivo”, percepibile dal singolo come un vantaggio personale (quindi un bene individuale), per indurlo a fare “la cosa giusta”, nell’interesse del raggiungimento del bene collettivo.

Per i sovranisti il Green pass è diventato uno strumento di controllo sociale, la misura definitiva per la digitalizzazione pervasiva della vita dei cittadini, un attentato al diritto al lavoro, una sorta di epitome di ciò che c’è di più mostruosamente ingiusto e malefico. Ovviamente, pur di non argomentare le proprie posizioni è stata tirata in ballo la Costituzione, che il Green pass avrebbe contraddetto (malgrado nessun costituzionalista abbia addotto obiezioni a riguardo), usata come sempre come strumento teppistico, apodittico e non argomentativo. Per i sovranisti è sufficiente dire che una cosa è anticostituzionale per avere automaticamente ragione. Le loro menti fantasiose hanno ingigantito così tanto il problema Green pass da farne l’ennesima idiota crociata ideologica: ciò che era una misura sgradevole ma poco dannosa (che, ripeto, avrebbe dovuto essere rimossa non appena ci si fosse resi conto che i non vaccinati rappresentavano una minoranza esigua della popolazione, e che l’ostinazione a mantenere il Green pass avrebbe quindi creato più danni – in termini di tensioni sociali fomentate da sovranisti ed estremisti simili – che vantaggi), è diventata per molti il problema. La mancanza di cultura, il voler piegare i fatti ai pregiudizi e la mera propaganda politica hanno fatto in modo che i sovranisti e altri demagoghi della stessa risma si siano concentrati su un dettaglio piuttosto che sul quadro d’insieme. Il dettaglio in questione diventa presto tutto il quadro e si perde per sempre la capacità di comprendere ciò che sta accadendo.

Una dinamica del tutto simile è ravvisabile, se possibile ancor più incrudita, nell’approccio dei sovranisti alla guerra di conquista della Russia ai danni dell’Ucraina. Ignorando del tutto il retroterra storico e i recenti sviluppi senza i quali non è possibile capire nulla della relazione tra Russa e Ucraina, i sovranisti hanno abbracciato la scriteriata e ridicola tesi anti-NATO ma, in particolare, antistatunitense. In sintesi, fungono da addetti stampa del ministro degli esteri russo. Essi odiano così tanto gli Stati Uniti d’America e le democrazie liberali che si sono fatti fautori (più o meno dichiarati) di un dittatore, il quale, giova dirlo, sta attentando alla sovranità di una nazione, mettendo in discussione la sua stessa esistenza. Ma non erano loro, i sovranisti, i paladini della sovranità nazionale? Qualche sovranista potrebbe obiettare che loro sono i difensori della sovranità nazionale d’Italia: gli altri paesi devono lottare autonomamente per la propria libertà. Ma allora perché non si dichiarano, almeno idealmente, in difesa dell’Ucraina, conservando in qualche modo le posizioni anti-NATO? Semplice: perché hanno accettato in maniera acritica tutte le tesi propagandistiche e cospirazioniste diffuse dal Cremlino e da tutte le quinte colonne (prezzolate o no) agenti nei paesi occidentali, Italia inclusa. Quindi, così come i vaccini non servirebbero a nulla, anzi non sarebbero vantaggiosi, anzi sarebbero nocivi, allo stesso modo la NATO, in virtù del suo allargamento e dell’imminente (ma, in realtà, impossibile e mai posta sul tavolo della NATO, perché un paese con dispute territoriali attive non potrebbe mai entrare nel trattato) ingresso dell’Ucraina, avrebbe causato direttamente l’esplosione del conflitto. Secondo tale fantasiosa tesi, gli Stati Uniti d’America starebbero agendo per isolare definitivamente la Russia dal contesto internazionale allo scopo di concentrare poi tutte le sue attenzioni sul vero nemico: la Cina. Un’altra tesi abborracciata e ridicola ma abbracciata entusiasticamente da molti sovranisti è, ovviamente, quella di Putin e dei suoi ideologi, ossia che la Russia stia agendo per denazificare l’Ucraina in una guerra di liberazione, in particolare nelle regioni del Donbass. Un’altra tesi idiota è che gli Stati Uniti d’America stiano spingendo l’Europa a non comprare il gas russo allo scopo di venderci il suo GNL (gas naturale liquefatto). Ogni tesi, per quanto scriteriata, è buona per cercare di portare supporto alla propria traballante visione del mondo.

Un dettaglio è stato il famigerato battaglione Azov. Così come per il Green pass, il battaglione Azov, certamente popolato da nazionalisti ucraini così come la Brigata paracadutisti “Folgore” è popolata da nazionalisti italiani, da dettaglio trascurabile è diventato il quadro d’insieme. L’intera Ucraina è diventata il battaglione Azov e tutti gli ucraini sono diventati nazisti. Tale tesi va di conserva con la convinzione che le regioni del Donbass siano popolate in gran parte da russofoni filorussi. Non importa che questa nozione sia falsa (e che non tutti i russofoni sia filorussi), essa rimane assai utile per portare avanti la loro propaganda a supporto di un dittatore. Poi, non si vede come un movimento separatista possa legittimare l’invasione di un intero paese allo scopo di “liberare” i territori separasti, che vorrebbero, secondo questi propagandisti da quattro soldi, ribadire la loro legittima autodeterminazione. Si noti che tali tesi sono ampiamente accettate da innumerevoli sedicenti intellettuali italiani, a sinistra come a destra, che sono le più o meno consapevoli, volontarie o prezzolate quinte colonne della propaganda russa in Italia. Agendo in questo modo, i sovranisti, rosso-bruni, solo rossi o solo bruni, perdono il quadro d’insieme, che è in definitiva molto semplice, come lo era in fondo la questione della pandemia e della sua gestione. La Russia, dopo aver fomentato separatismi nelle regioni dell’est dell’Ucraina e dopo essersi annessa, nel 2014, la Crimea ha invaso un intero paese con un’operazione militare su larga scala macchiandosi di crimini di guerra, causando la peggiore crisi umanitaria dal secondo dopoguerra e destabilizzando la sicurezza economica ed energetica dell’intero continente europeo. Unione europea, Stati Uniti d’America e i loro alleati hanno opportunamente comminato alla Russia severe sanzioni per causarne seri danni economici, anche a costo di avere problemi di rifornimenti di beni energetici, e pertanto indiretti danni economici. Ça va sans dire, anche gli aiuti umanitari, finanziari e bellici dell’Italia a favore dell’Ucraina (in realtà, rispetto al Pil, poca cosa rispetto ad altri paesi simili al nostro) sono stati osteggiati dai sovranisti, perché tali misure causeranno sicuramente un immediato danno economico al paese, sia in termini di scarpe non vendute ai russi, sia per l’aumento della bolletta energetica. E perché si distraggono soldi che potrebbero essere destinati ai cosiddetti poveri italiani. La nozione che queste sanzioni rientrino proprio nell’interesse dell’Europa e, di conseguenza, dell’Italia non gli passa per l’anticamera del cervello. Lo scopo dell’azione congiunta di tutto l’occidente è sanzionare la Russia affinché questo paese se ne guardi bene in futuro dal fare una cosa del genere. Le guerre pregiudicano il mercato internazionale, vero volano per la crescita economica di tutti i paesi (anche se i sovranisti sono gli ideologi dello stato commerciale chiuso): lo scopo dell’occidente è segnalare a un paese violento, illiberale, estrattivo, mafioso come la Russia che le sue mire espansionistiche non saranno più tollerate. Un errore fatale dell’occidente è stato quello di tollerare troppo e per troppo tempo la Russia: se ci fosse stato una reale deterrenza militare da parte della NATO, quindi il dispiegamento nei paesi NATO limitrofi alla federazione russa di truppe e armamenti con capacità di prontezza d’intervento subito dopo l’annessione della Crimea, forse Putin ci avrebbe pensato due volte prima di intervenire in Ucraina. Le iniziative dell’occidente sono un atto tardivo ma opportuno di civiltà e di soccorso nei confronti di un paese invaso che ha chiesto legittimamente un aiuto.

RENDERE POSSIBILE L’IMPOSSIBILE

Abstract

La presa in carico di una persona su cui grava una fondata opinione di irreversibilità di una condizione clinica pone il terapista della riabilitazione di fronte a una ridotta libertà d’azione. Il suo lavoro dovrà limitarsi alla conservazione dello status quo, al fare il possibile per mantenere la qualità della vita dell’assistito entro limiti di tollerabilità ma con pressoché obliterati orizzonti di miglioramento. Il presente contributo, frutto di una reale esperienza clinica, suggerisce che, in determinati casi, il terapista può “sfidare” l’opinione clinica di un collega che ne limiterebbe altrimenti quasi del tutto un’azione volta al miglioramento della qualità della vita dell’assistito. In questa esperienza, la “sfida” è colta da terapista, assistito e dalla sua famiglia, in un percorso spesso accidentato e difficilmente formalizzabile in un algoritmo o un protocollo di trattamento, perché fortemente individualizzato e inevitabilmente soggetto agli esiti mutevoli di un approccio empirico ed euristico: in poche parole, alla relazione tra terapistae assistito.

Si verificano solo i miracoli.

Tutto il resto è scontato.

(Carmelo Bene, La voce di Narciso)

La pesanteur e la grazia

Si dice, spesso con noncuranza e sufficienza, che è dai piccoli atti quotidiani che possono scaturire grandi cose. In tale prospettiva, l’eccezione che irrompe nella realtà, stabilendone foss’anche per poco la scompaginazione dell’abituale tessitura, è talvolta definita miracolo. Ma il miracolo non è un evento che stabilisce una sospensione delle leggi di natura: come potrebbe Dio partecipare alla vita dell’uomo contravvenendo alle proprie leggi? Quindi, pur convenendo con Platone che “Dio è un perpetuo geometra”, un legislatore le cui leggi corrispondono in ultima analisi alla sua stessa natura, nondimeno è esperienza comune rilevare come alcuni eventi, nella loro straordinarietà, eccedono in tale misura le nostre aspettative e gli abituali accadimenti quotidiani, da indurci ad annoverarli nella categoria dei miracoli. In questo senso, il miracolo è esperito come qualcosa che accade al di fuori di noi: lungi dall’esserne agenti, ne siamo agìti, o ne diventiamo puri spettatori.

Tutto, nel mondo, sembra soggetto alla pesanteur, come la definì felicemente Simone Weil: una diuturna forza deìfuga sembra estenuare continuamente i nostri sforzi volti al bene. E spesso i nostri stessi intendimenti volti al bene hanno esiti affatto differenti, se non addirittura opposti rispetto ai nostri propositi, sì da farci sospettare che se c’è una regola, essa è per ironia della sorte l’eterogenesi dei fini. Ma la grazia, ed è sempre Simone Weil che ci parla, rientrando nell’economia della salvezza che Dio ha deciso per l’uomo, riporta provvidenzialmente in equilibrio il cosmo, e ciò avvenendo secondo un principio quasi deterministico, secondo una sottile legge di natura, fatta di numeri e rigorose proporzioni, che è intellegibile per chi ha orecchie per intendere.

Viviamo in un mondo che valorizza l’accettazione supina della pesanteur, della realtà come ci appare. Guardiamo con occhio torvo il mondo, e il mondo ci rimanda indietro lo stesso sguardo in tralìce. La pesanteur è una profezia che si autoavvera. La scienza sembra talvolta avvalorare questo modo di esperire la realtà, ed è anzi la scienza stessa che sembra incarnare la pesanteur, specie quando riteniamo che i suoi risultati, per statuto epistemologico popperianamente falsificabili, rappresentino nondimeno l’ultima parola sulla realtà, una sorta di condanna senza appello. Ma se è vero che la scienza, con riferimento particolare alla scienza medica, ha fatto prodigiosi progressi in ordine alle sue capacità diagnostiche e terapeutiche, nondimeno sarebbe azzardato farne un punto di riferimento assoluto, un oracolo infallibile. Se così facessimo, negheremmo lo stesso spirito della scienza e del suo metodo. Pur essendo sinceri fautori della scienza, siamo nondimeno perfettamente consci dei suoi limiti epistemici. Ed è proprio nello scarto tra ciò che sappiamo o crediamo di sapere e la realtà così come è veramente che può prorompere l’impreveduto: nostro compito è mantenere pervio questo spazio, rendere possibile questo luogo del possibile.

Il caso di A.

A. è un uomo di quarant’anni con tetraparesi spastica e grave disartria che, in tempi recenti, nel 2017, per complicanze e peggioramento delle proprie condizioni, è stato dichiarato non alimentabile per bocca dal foniatra curante. Ciò ha reso necessaria una gastrostomia endoscopica percutanea (PEG) per l’alimentazione tramite nutripompa, escludendo del tutto quella per os onde scongiurare polmoniti da aspirazione. Ne è conseguita la decisione della famiglia di istituzionalizzare la persona.

Al passaggio all’alimentazione esclusivamente enterale la vita percettiva di una persona come A., già gravemente compromessa, risulta ancor più impoverita: la percezione del gusto e dell’olfatto dei cibi, il piacere insito nel mangiare, e la valenza sociale e relazionale del consumo degli alimenti (le routine quotidiane, la scelta e l’attesa dei cibi, le diverse persone che si avvicendano alla somministrazione dei pasti, ecc.) rappresentano, infatti, una parte molto significativa della gamma sensoriale ed esperienziale di queste persone. La deprivazione di questi contatti percettivi ed esperienziali hanno pesanti ripercussioni sullo stato psicologico della persona. Il buon senso e una consona pratica professionale avrebbero consigliato il terapista della riabilitazione, in questo caso la logopedista, di occuparsi esclusivamente dello status quo: d’altronde, l’opinione del foniatra e la condizione oggettiva del paziente non lasciavano aperte molte strade per una sostanziale riabilitazione del paziente.

Pur avendo in mente tutto ciò, nel 2018 la logopedista inizia un percorso riabilitativo, per così dire esplorativo, in un primo momento volto esclusivamente a riprendere confidenza con gusti e odori, quindi a solo scopo “edonistico”. Gli alimenti, quindi, non venivano ingeriti, perché ciò poteva rappresentare una reale minaccia per l’incolumità del paziente. Dopo questi “pasti simulati”, il cavo orale del paziente doveva essere ogni volta pazientemente pulito e disinfettato per evitare che rimassero residui di cibo che sarebbero potuti essere aspirati nelle vie aeree del paziente. Durante questa fase della riabilitazione si è venuta a creare una stretta relazione tra logopedista e assistito, che era scandita da routine quotidiane, discussioni e “scontri”.

Dopo un congruo periodo di tempo in cui A. ha potuto riprendere confidenza con la consistenza, il gusto e l’odore dei cibi, la logopedista ha dato il via a una cauta e graduale riabilitazione della deglutizione. A., aiutato pazientemente dalla terapista, ha ricominciato a mangiare. Ovviamente, il cibo di A. era sempre sotto forma di omogenizzato. Per assicurare un sicuro transito orofaringeo, la logopedista ha insegnato ad A. le posture di compenso della deglutizione che, dopo un periodo di addestramento, sono state imparate e messe in pratica dall’assistito. È stato necessario selezionare attentamente gli alimenti da somministrare, sia tenendo conto delle preferenze di A., sia evitando cibi eccessivamente “appetitosi”, che avrebbero potuto aumentare eccessivamente la secrezione salivare. Come è facile immaginare, tutto ciò è stato seguito dalla logopedista con una certa apprensione, perché era del tutto ovvio che questo percorso non fosse scevro da rischi. Tuttavia, anche grazie al supporto e alla fiducia ricevuti dalla famiglia di A., la terapista, perseverando e andando oltre le prescrizioni mediche, è riuscita a ottenere un risultato di valore inestimabile e, soprattutto, inatteso.

La logopedista si è mossa in un terreno accidentato, ignoto e non illuminato da un protocollo di trattamento standard: un’esperienza personale quindi, ma dagli esiti di estremo valore per l’assistito. Un’esperienza personale che dovrà essere generalizzata poi agli altri caregiver, siano questi altri terapisti o altro personale sanitario, o la stessa famiglia. Oggi A., ancora alimentato tramite nutripompa ma mantenendo un pasto al giorno per via orale, ha raggiunto una qualità della vita nettamente migliore rispetto a quella che poteva avere solo alcuni mesi prima.

Sulle orme di Ivan Illich, e oltre

Ivan Illich, in Nemesi medica ma in tutta la sua opera ha proposto un’analisi coerente e conseguente dell’istituzionalizzazione di una virtù cristiana come la cura del prossimo. Secondo Illich la Chiesa, andando nei secoli a istituzionalizzarsi e burocratizzarsi sempre più, si è convertita da Mater et Magistra, emanazione della provvidenza divina sulla terra per la salvezza delle anime, a istituzione erogatrice di servizi per l’assistenza delle persone. L’enfasi data all’erogazione di servizi di assistenza al prossimo e alla sua efficienza avrebbe, secondo Illich, espropriato il singolo credente della libertà di perseguire individualmente il bene nell’ottica di una salvezza personale. Questo è il “pervertimento” fondamentale che scorge Illich nella Chiesa cristiana.

Al termine del basso medioevo e ai primordi dell’epoca moderna i nascenti Stati nazionali si sarebbero ispirati alla struttura burocratica e organizzativa della Chiesa per far fronte alle loro enormi complessità di gestione e governo. Mutatis mutandis, lo Stato al volgere dei secoli si è fatto organizzatore ed erogatore di servizi sempre più sofisticati e variegati alla cittadinanza e ciò al costo di espropriare il singolo cittadino della capacità di far fronte individualmente alle proprie esigenze. Non solo: la sovraproduzione di servizi, quali la sanità pubblica, i trasporti e la scuola, produrrebbe per ironia della sorte ed eterogenesi dei fini l’esatto contrario: la medicina produce malattie iatrogene, i trasporti pubblici riducono l’efficienza di movimento delle persone, la scuola, anziché produrre istruzione, diffonde ignoranza e risentimento sociale. I cittadini, vedendo le enormi carenze nei servizi e i loro scarsi risultati, ne chiedono sempre di più sollecitando maggiori risorse e denari pubblici, e causando in questo modo l’aumento di sprechi e alimentando in ultima analisi il circolo vizioso della sovraproduzione che crea insanabili inefficienze.

Sebbene la critica serrata che muove Ivan Illich al sistema sanitario e alla medicina in senso lato abbia riscontri fattuali (secondo stime la iatrogenesi, ossia gli effetti collaterali e i rischi associati a un intervento medico, è la quinta causa di morte nel mondo), è altrettanto dimostrato che l’efficienza dei sistemi sanitari concorra alla condizione di salute e alla speranza di vita delle popolazioni.

Al di là degli effetti della medicina come istituzione sulla popolazione, volendo seguire e sviluppare l’assunto di Illich sul piano individuale potremmo dire che l’umanità di colui o colei che si prende cura di un altro, facendolo in modo professionale e istituzionalizzato, viene in qualche modo degradata dall’efficienza e dalla professionalità che le viene richiesta. In altre parole, per curare il prossimo è necessario quel tanto di distacco emotivo da osservare la persona presa in carico come fosse un oggetto. A perderne sono quindi sia l’umanità di chi cura, sia l’umanità di chi è preso in carico. La medicina ha cominciato storicamente ad affrancarsi dall’aurea di estemporaneità, improvvisazione e difficile standardizzazione delle pratiche nel momento in cui ha assunto il metodo scientifico come proprio modus operandi. Da quel momento in poi la medicina, non più e non soltanto pratica, è divenuta scienza medica, e ha cominciato a produrre ipotesi e teorie, nonché risultati tangibili e riproducibili. La sperimentazione e la riproducibilità dei risultati ha convertito quindi il paziente-persona umana in paziente-oggetto sperimentale. Si potrebbe dire che la reificazione e la riduzione del paziente alle sue componenti fisiologiche e organiche è condizione preliminare ma oggettivamente necessaria per prendersene cura in maniera sensata ed efficace. Ma oggi scorgiamo i rischi insiti in un’estremizzazione di tale necessità, segnatamente nella standardizzazione della pratica medica: protocolli e algoritmi di trattamento, talvolta supportati da un’evidenza empirica poco robusta, pretendono di normare minutamente le scelte quotidiane di terapisti e sanitari, obliterando quasi del tutto la loro libertà d’azione. Il nostro Zeitgeist ha informato di sé tutto il nostro agire ma anche il nostro pensiero: così come a fine Ottocento la meccanica, frontiera tecnologica del tempo, informava di sé il pensiero di filosofi e scienziati dando origine a teorie meccanicistiche della psiche e del funzionamento dell’organismo umano, oggi l’algoritmo informatico si è fatto pensiero e azione, e ha informato di sé la pratica medica. Il caso di A. è, da questo punto di vista, emblematico e istruttivo: la logopedista, cogliendo euristicamente ossia intuitivamente le potenzialità della persona presa in carico, ha ottenuto dei risultati che mai sarebbero potuti essere pensabili se solo si fosse limitata alle prescrizioni mediche. La terapista, invece, in un lento percorso di autoapprendimento relazionale col paziente, ha reso possibile ciò che era stato dichiarato impossibile.

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Bibliografia

  1. Carmelo Bene. Opere, con l’autografia di un ritratto. Bompiani, Milano, 2002, ISBN 88-452-5166-7.
  2. Rafia Farooq Peer and Nadeem Shabir. Iatrogenesis: A review on nature, extent, and distribution of healthcare hazards. J Family Med Prim Care. 2018 Mar-Apr; 7(2): 309–314.
  3. Ivan Illich. Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Boroli, 2005.
  4. Ivan Illich. Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo chiesa e modernità. Verbarium, Quodlibet 2008.
  5. Noelle-Angelique M Molinari. The effect of health care on population health. Volume 364, issue 9445, P1558-1560, October 30, 2004.
  6. Karl Popper. Logica della scoperta scientifica [1934], Einaudi, Torino, 1970.
  7. Simone Weil. L’ombra e la grazia. Traduzione di Franco Fortini con testo originale a fronte, introduzione di Georges Hourdin, Milano, Bompiani, 2002.

[Articolo apparso su Spiritualità e qualità della vita, XII/2022]

Fuori dalla città – Trailer

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“Fuori dalla città”

Scritto e prodotto da Domenico Lombardini

Regia, fotografia e montaggio: Brace Beltempo

Colonna sonora e sound design: Paolo Traverso

Starring: Marco Mainini, Melissa Di Cianni, Claudio Savina, Riccardo Milani, Domenico Lombardini, Alessandro Lombardini, Viola Lombardini, Nicolò Lombardini

Assistente alla produzione: Viola Azzolin

Assistente alla produzione: Marco Cozzi