Abstract
La presa in carico di una persona su cui grava una fondata opinione di irreversibilità di una condizione clinica pone il terapista della riabilitazione di fronte a una ridotta libertà d’azione. Il suo lavoro dovrà limitarsi alla conservazione dello status quo, al fare il possibile per mantenere la qualità della vita dell’assistito entro limiti di tollerabilità ma con pressoché obliterati orizzonti di miglioramento. Il presente contributo, frutto di una reale esperienza clinica, suggerisce che, in determinati casi, il terapista può “sfidare” l’opinione clinica di un collega che ne limiterebbe altrimenti quasi del tutto un’azione volta al miglioramento della qualità della vita dell’assistito. In questa esperienza, la “sfida” è colta da terapista, assistito e dalla sua famiglia, in un percorso spesso accidentato e difficilmente formalizzabile in un algoritmo o un protocollo di trattamento, perché fortemente individualizzato e inevitabilmente soggetto agli esiti mutevoli di un approccio empirico ed euristico: in poche parole, alla relazione tra terapistae assistito.
Si verificano solo i miracoli.
Tutto il resto è scontato.
(Carmelo Bene, La voce di Narciso)
La pesanteur e la grazia
Si dice, spesso con noncuranza e sufficienza, che è dai piccoli atti quotidiani che possono scaturire grandi cose. In tale prospettiva, l’eccezione che irrompe nella realtà, stabilendone foss’anche per poco la scompaginazione dell’abituale tessitura, è talvolta definita miracolo. Ma il miracolo non è un evento che stabilisce una sospensione delle leggi di natura: come potrebbe Dio partecipare alla vita dell’uomo contravvenendo alle proprie leggi? Quindi, pur convenendo con Platone che “Dio è un perpetuo geometra”, un legislatore le cui leggi corrispondono in ultima analisi alla sua stessa natura, nondimeno è esperienza comune rilevare come alcuni eventi, nella loro straordinarietà, eccedono in tale misura le nostre aspettative e gli abituali accadimenti quotidiani, da indurci ad annoverarli nella categoria dei miracoli. In questo senso, il miracolo è esperito come qualcosa che accade al di fuori di noi: lungi dall’esserne agenti, ne siamo agìti, o ne diventiamo puri spettatori.
Tutto, nel mondo, sembra soggetto alla pesanteur, come la definì felicemente Simone Weil: una diuturna forza deìfuga sembra estenuare continuamente i nostri sforzi volti al bene. E spesso i nostri stessi intendimenti volti al bene hanno esiti affatto differenti, se non addirittura opposti rispetto ai nostri propositi, sì da farci sospettare che se c’è una regola, essa è per ironia della sorte l’eterogenesi dei fini. Ma la grazia, ed è sempre Simone Weil che ci parla, rientrando nell’economia della salvezza che Dio ha deciso per l’uomo, riporta provvidenzialmente in equilibrio il cosmo, e ciò avvenendo secondo un principio quasi deterministico, secondo una sottile legge di natura, fatta di numeri e rigorose proporzioni, che è intellegibile per chi ha orecchie per intendere.
Viviamo in un mondo che valorizza l’accettazione supina della pesanteur, della realtà come ci appare. Guardiamo con occhio torvo il mondo, e il mondo ci rimanda indietro lo stesso sguardo in tralìce. La pesanteur è una profezia che si autoavvera. La scienza sembra talvolta avvalorare questo modo di esperire la realtà, ed è anzi la scienza stessa che sembra incarnare la pesanteur, specie quando riteniamo che i suoi risultati, per statuto epistemologico popperianamente falsificabili, rappresentino nondimeno l’ultima parola sulla realtà, una sorta di condanna senza appello. Ma se è vero che la scienza, con riferimento particolare alla scienza medica, ha fatto prodigiosi progressi in ordine alle sue capacità diagnostiche e terapeutiche, nondimeno sarebbe azzardato farne un punto di riferimento assoluto, un oracolo infallibile. Se così facessimo, negheremmo lo stesso spirito della scienza e del suo metodo. Pur essendo sinceri fautori della scienza, siamo nondimeno perfettamente consci dei suoi limiti epistemici. Ed è proprio nello scarto tra ciò che sappiamo o crediamo di sapere e la realtà così come è veramente che può prorompere l’impreveduto: nostro compito è mantenere pervio questo spazio, rendere possibile questo luogo del possibile.
Il caso di A.
A. è un uomo di quarant’anni con tetraparesi spastica e grave disartria che, in tempi recenti, nel 2017, per complicanze e peggioramento delle proprie condizioni, è stato dichiarato non alimentabile per bocca dal foniatra curante. Ciò ha reso necessaria una gastrostomia endoscopica percutanea (PEG) per l’alimentazione tramite nutripompa, escludendo del tutto quella per os onde scongiurare polmoniti da aspirazione. Ne è conseguita la decisione della famiglia di istituzionalizzare la persona.
Al passaggio all’alimentazione esclusivamente enterale la vita percettiva di una persona come A., già gravemente compromessa, risulta ancor più impoverita: la percezione del gusto e dell’olfatto dei cibi, il piacere insito nel mangiare, e la valenza sociale e relazionale del consumo degli alimenti (le routine quotidiane, la scelta e l’attesa dei cibi, le diverse persone che si avvicendano alla somministrazione dei pasti, ecc.) rappresentano, infatti, una parte molto significativa della gamma sensoriale ed esperienziale di queste persone. La deprivazione di questi contatti percettivi ed esperienziali hanno pesanti ripercussioni sullo stato psicologico della persona. Il buon senso e una consona pratica professionale avrebbero consigliato il terapista della riabilitazione, in questo caso la logopedista, di occuparsi esclusivamente dello status quo: d’altronde, l’opinione del foniatra e la condizione oggettiva del paziente non lasciavano aperte molte strade per una sostanziale riabilitazione del paziente.
Pur avendo in mente tutto ciò, nel 2018 la logopedista inizia un percorso riabilitativo, per così dire esplorativo, in un primo momento volto esclusivamente a riprendere confidenza con gusti e odori, quindi a solo scopo “edonistico”. Gli alimenti, quindi, non venivano ingeriti, perché ciò poteva rappresentare una reale minaccia per l’incolumità del paziente. Dopo questi “pasti simulati”, il cavo orale del paziente doveva essere ogni volta pazientemente pulito e disinfettato per evitare che rimassero residui di cibo che sarebbero potuti essere aspirati nelle vie aeree del paziente. Durante questa fase della riabilitazione si è venuta a creare una stretta relazione tra logopedista e assistito, che era scandita da routine quotidiane, discussioni e “scontri”.
Dopo un congruo periodo di tempo in cui A. ha potuto riprendere confidenza con la consistenza, il gusto e l’odore dei cibi, la logopedista ha dato il via a una cauta e graduale riabilitazione della deglutizione. A., aiutato pazientemente dalla terapista, ha ricominciato a mangiare. Ovviamente, il cibo di A. era sempre sotto forma di omogenizzato. Per assicurare un sicuro transito orofaringeo, la logopedista ha insegnato ad A. le posture di compenso della deglutizione che, dopo un periodo di addestramento, sono state imparate e messe in pratica dall’assistito. È stato necessario selezionare attentamente gli alimenti da somministrare, sia tenendo conto delle preferenze di A., sia evitando cibi eccessivamente “appetitosi”, che avrebbero potuto aumentare eccessivamente la secrezione salivare. Come è facile immaginare, tutto ciò è stato seguito dalla logopedista con una certa apprensione, perché era del tutto ovvio che questo percorso non fosse scevro da rischi. Tuttavia, anche grazie al supporto e alla fiducia ricevuti dalla famiglia di A., la terapista, perseverando e andando oltre le prescrizioni mediche, è riuscita a ottenere un risultato di valore inestimabile e, soprattutto, inatteso.
La logopedista si è mossa in un terreno accidentato, ignoto e non illuminato da un protocollo di trattamento standard: un’esperienza personale quindi, ma dagli esiti di estremo valore per l’assistito. Un’esperienza personale che dovrà essere generalizzata poi agli altri caregiver, siano questi altri terapisti o altro personale sanitario, o la stessa famiglia. Oggi A., ancora alimentato tramite nutripompa ma mantenendo un pasto al giorno per via orale, ha raggiunto una qualità della vita nettamente migliore rispetto a quella che poteva avere solo alcuni mesi prima.
Sulle orme di Ivan Illich, e oltre
Ivan Illich, in Nemesi medica ma in tutta la sua opera ha proposto un’analisi coerente e conseguente dell’istituzionalizzazione di una virtù cristiana come la cura del prossimo. Secondo Illich la Chiesa, andando nei secoli a istituzionalizzarsi e burocratizzarsi sempre più, si è convertita da Mater et Magistra, emanazione della provvidenza divina sulla terra per la salvezza delle anime, a istituzione erogatrice di servizi per l’assistenza delle persone. L’enfasi data all’erogazione di servizi di assistenza al prossimo e alla sua efficienza avrebbe, secondo Illich, espropriato il singolo credente della libertà di perseguire individualmente il bene nell’ottica di una salvezza personale. Questo è il “pervertimento” fondamentale che scorge Illich nella Chiesa cristiana.
Al termine del basso medioevo e ai primordi dell’epoca moderna i nascenti Stati nazionali si sarebbero ispirati alla struttura burocratica e organizzativa della Chiesa per far fronte alle loro enormi complessità di gestione e governo. Mutatis mutandis, lo Stato al volgere dei secoli si è fatto organizzatore ed erogatore di servizi sempre più sofisticati e variegati alla cittadinanza e ciò al costo di espropriare il singolo cittadino della capacità di far fronte individualmente alle proprie esigenze. Non solo: la sovraproduzione di servizi, quali la sanità pubblica, i trasporti e la scuola, produrrebbe per ironia della sorte ed eterogenesi dei fini l’esatto contrario: la medicina produce malattie iatrogene, i trasporti pubblici riducono l’efficienza di movimento delle persone, la scuola, anziché produrre istruzione, diffonde ignoranza e risentimento sociale. I cittadini, vedendo le enormi carenze nei servizi e i loro scarsi risultati, ne chiedono sempre di più sollecitando maggiori risorse e denari pubblici, e causando in questo modo l’aumento di sprechi e alimentando in ultima analisi il circolo vizioso della sovraproduzione che crea insanabili inefficienze.
Sebbene la critica serrata che muove Ivan Illich al sistema sanitario e alla medicina in senso lato abbia riscontri fattuali (secondo stime la iatrogenesi, ossia gli effetti collaterali e i rischi associati a un intervento medico, è la quinta causa di morte nel mondo), è altrettanto dimostrato che l’efficienza dei sistemi sanitari concorra alla condizione di salute e alla speranza di vita delle popolazioni.
Al di là degli effetti della medicina come istituzione sulla popolazione, volendo seguire e sviluppare l’assunto di Illich sul piano individuale potremmo dire che l’umanità di colui o colei che si prende cura di un altro, facendolo in modo professionale e istituzionalizzato, viene in qualche modo degradata dall’efficienza e dalla professionalità che le viene richiesta. In altre parole, per curare il prossimo è necessario quel tanto di distacco emotivo da osservare la persona presa in carico come fosse un oggetto. A perderne sono quindi sia l’umanità di chi cura, sia l’umanità di chi è preso in carico. La medicina ha cominciato storicamente ad affrancarsi dall’aurea di estemporaneità, improvvisazione e difficile standardizzazione delle pratiche nel momento in cui ha assunto il metodo scientifico come proprio modus operandi. Da quel momento in poi la medicina, non più e non soltanto pratica, è divenuta scienza medica, e ha cominciato a produrre ipotesi e teorie, nonché risultati tangibili e riproducibili. La sperimentazione e la riproducibilità dei risultati ha convertito quindi il paziente-persona umana in paziente-oggetto sperimentale. Si potrebbe dire che la reificazione e la riduzione del paziente alle sue componenti fisiologiche e organiche è condizione preliminare ma oggettivamente necessaria per prendersene cura in maniera sensata ed efficace. Ma oggi scorgiamo i rischi insiti in un’estremizzazione di tale necessità, segnatamente nella standardizzazione della pratica medica: protocolli e algoritmi di trattamento, talvolta supportati da un’evidenza empirica poco robusta, pretendono di normare minutamente le scelte quotidiane di terapisti e sanitari, obliterando quasi del tutto la loro libertà d’azione. Il nostro Zeitgeist ha informato di sé tutto il nostro agire ma anche il nostro pensiero: così come a fine Ottocento la meccanica, frontiera tecnologica del tempo, informava di sé il pensiero di filosofi e scienziati dando origine a teorie meccanicistiche della psiche e del funzionamento dell’organismo umano, oggi l’algoritmo informatico si è fatto pensiero e azione, e ha informato di sé la pratica medica. Il caso di A. è, da questo punto di vista, emblematico e istruttivo: la logopedista, cogliendo euristicamente ossia intuitivamente le potenzialità della persona presa in carico, ha ottenuto dei risultati che mai sarebbero potuti essere pensabili se solo si fosse limitata alle prescrizioni mediche. La terapista, invece, in un lento percorso di autoapprendimento relazionale col paziente, ha reso possibile ciò che era stato dichiarato impossibile.
Scarica il PDF.
Bibliografia
- Carmelo Bene. Opere, con l’autografia di un ritratto. Bompiani, Milano, 2002, ISBN 88-452-5166-7.
- Rafia Farooq Peer and Nadeem Shabir. Iatrogenesis: A review on nature, extent, and distribution of healthcare hazards. J Family Med Prim Care. 2018 Mar-Apr; 7(2): 309–314.
- Ivan Illich. Nemesi medica. L’espropriazione della salute. Boroli, 2005.
- Ivan Illich. Pervertimento del Cristianesimo. Conversazioni con David Cayley su vangelo chiesa e modernità. Verbarium, Quodlibet 2008.
- Noelle-Angelique M Molinari. The effect of health care on population health. Volume 364, issue 9445, P1558-1560, October 30, 2004.
- Karl Popper. Logica della scoperta scientifica [1934], Einaudi, Torino, 1970.
- Simone Weil. L’ombra e la grazia. Traduzione di Franco Fortini con testo originale a fronte, introduzione di Georges Hourdin, Milano, Bompiani, 2002.
[Articolo apparso su Spiritualità e qualità della vita, XII/2022]