Il pesce puzza dalla testa

Fateci caso: gli acerrimi avversarsi del cosiddetto capitalismo o neoliberismo lo sono a parole ma, nelle azioni, ove rifulge la verità, si comportano come se comprendessero e sfruttassero assai bene i vantaggi e i benefici del sistema che aborriscono.

Michela Murgia, pace all’anima sua, da principio (anche) operatrice di call center ha fatto libri ed emesso anatemi contro il precariato e i bassi salari (come se bastasse dichiararsi contro qualcosa per ottenere qualcosa) e si è dichiarata apertis verbis comunista, ma, nelle azioni, ha fatto leverage sulla propria presenza mediatica e la propria (men che mediocre) scrittura per vendere a tante persone i suoi prodotti. Questo è capitalismo.

Diego Fusaro, sedicente filosofo barricadero (a parole), dispensatore massivo di scempiaggini e stantie visioni sulla realtà (frutto diretto del muffito insegnamento di stampo gentiliano che imperversa nelle paludate accademie italiane), si è fatto testimonial di videogiochi, ha venduto suoi video ai suoi sciagurati epigoni, ha fatto come prima leverage sulla propria presenza mediatica e la propria (men che mediocre) produzione filosofica per vendere a tante persone i suoi prodotti. Questo è capitalismo.

Questo per quanto riguarda i cosiddetti intellettuali che non percepiscono stipendi pubblici. Tutti gli altri (e vanno dagli insegnanti di scuole medie inferiori e superiori fino ai cattedratici), e sono i vari Cacciari, Zhok, Barbero, ma molti altri, un vero e proprio pulviscolo che inquina e compromette molecolarmente (come avrebbe detto il loro maestro putativo Gramsci) tutti i settori educativi del nostro ridicolo, velleitario, vecchio e feroce paese, non devono nemmeno prendersi la briga di essere competitivi sul mercato. A loro basta emettere sentenze credendo che le loro vesti paludate di insegnanti e cattedratici bastino a rendere vero o quanto meno credibile quanto vanno dicendo. E su tutto il paese grava una cappa asfissiante di idiozia prodotta dalla loro irresponsabile attività di propalatori di idiozie.

In effetti, tutti ci adattiamo al contesto di mercato in cui ci si trova a vivere. Nel nostro caso, l’Italia, un contesto di pauroso declino morale e intellettuale.

Il populismo è il prodotto degenere delle socialdemocrazie liberali

Pellizza da Volpedo, nel suo famoso “Il quarto stato”, dipinse una fiumana di braccianti agricoli non tumultuanti bensì al passo lento ma sicuro verso quella che parrebbe una sicura vittoria, il sol dell’avvenire.

Oggi quest’opera parrebbe profetare l’emancipazione delle masse dallo stato di schiavitù che le relegava, dicendola con Marx, a una dimensione metastorica: mai motori della storia ma suoi inerti pendant. Gli ideologi hanno individuato nella vittoria (sempre parziale, secondo costoro) delle idee socialiste la vera causa dello storico miglioramento della condizione delle masse, almeno in Occidente. In realtà, sono state le rivoluzioni industriali e, in essenza, i modi diversi e sempre più efficienti di produrre cose e servizi che hanno affrancato le masse dalla povertà. In ultima analisi, è la tecnica il motore che ha affrancato gran parte dell’umanità dalla fame.

“Il quarto stato” è raffigurazione antesignana della promessa della socialdemocrazia liberale per come la vediamo oggi nella sua forma forse terminale pienamente realizzata: la società del benessere collettivo, del benessere delle masse.

La socialdemocrazia liberale parrebbe degradare naturalmente verso il populismo e le varie forme che assume questo nei vari paesi: trumpismo, sovranismo, antieuropeismo sono tutte dimensioni del populismo cresciuto come una propaggine naturale dalle socialdemocrazie occidentali. Il populismo può essere definito come la risultante della graduale e man mano definitiva disintermediazione culturale tra masse e decisori politici. È il risultato del collasso della funzione delle élite culturali che avrebbero dovuto e dovrebbero dissuadere le masse dal credere ai demagoghi più grotteschi che promettono loro la luna nel pozzo, in definitiva dal credere all’onnipotenza dello Stato e alla sua presunta capacità di creare ricchezza ex nihilo.

In Italia la degradazione populista della democrazia liberale ha segnato, negli ultimi decenni, una decisa accelerazione rispetto ad altri paesi occidentali: ciò ha motivi soprattutto culturali. L’Italia è l’avanguardia del populismo europeo perché è un paese culturalmente indigente. L’indigenza culturale è più grave in termini di scarsissima diffusione del sapere scientifico nella popolazione e, invece, di larghissima diffusione di inane idealismo che informa i discorsi e le azioni di intellettuali e decisori politici e, per riflesso, le simpatie politiche dei loro elettori.  L’idealismo è responsabile della degradazione socioculturale ed economica d’Italia: decisioni politiche puramente e molto spesso opportunisticamente orientate dall’idealismo hanno prodotto e producono esiti inintenzionali, ma è stata ed è la commistione incestuosa fra politica ed economia la causa del declino economico e sociale del nostro paese, dagli anni Settanta a oggi.

Il decisore politico italiano ha voluto mantenere e molto spesso aumentare il grado di intermediazione statale dell’economia nazionale, con l’inevitabile elefantiasi della burocrazia e l’estenuante inefficienza dell’apparato pubblico, che sono alla base della declinante produttività del paese. La tetragona resistenza al cambiamento da parte dei politici ha provocato una cronica inibizione alla libertà economica delle persone, ossia della loro libertà tout court. La vittima è stata la potenziale crescita economica del paese. Una base imponibile sempre più piccola e riducentesi negli anni sta compromettendo lo stesso espletamento di servizi essenziali come la sanità. La politica, di destra come di sinistra, anziché parlare di aumento della capacità produttiva del paese si rifugia nella pratica taumaturgica di una più giusta (leggasi punitiva per i cosiddetti ricchi) ridistribuzione della ricchezza o, nelle sue posizioni più grottesche, nella psichedelia delle cosiddette sovranità (monetaria, economica, istituzionale) come cornucopia sulla terra di ogni ben di Dio.

Destra e sinistra, populiste al midollo, rispondono alle richieste infantili di un popolo degradato a parassita e questuante dicendo: “Lo Stato vi salverà”. Ma il cosiddetto Stato non può salvar nulla e nessuno: avocando a sé indebitamente funzioni che potrebbero essere molto meglio espletate dai singoli individui, debilita sé stesso e la propria credibilità con i propri fallimenti e compromette in questo modo la fiducia che il cittadino potrebbe nutrire per il decisore politico. A questo punto si ha una biforcazione delle tendenze politiche degli italiani: l’apatia, il disinteresse e il qualunquismo, manifestati dall’astensione di massa al voto. E l’effetto paradosso della richiesta o proposta di “più Stato”, rispettivamente da elettori e politici populisti. Il populismo è essenzialmente e mediamente pulsione e orientamento politico di persone reazionarie, anziane, mediamente benestanti. I giovani, soprattutto quelli istruiti, sono aperti al cambiamento e non trovano tuttavia alcuna rappresentanza politica.

Là fuori, tutto è sovranismo

Elly Schlein è un’altra forma presa dal populismo italiano. Un paese in declino economico e culturale da decenni non può che esprimere populismi, ora sotto forma del partito di Meloni, ora sotto forma del Movimento5Stelle o del sotterraneo e carsico sovranismo fasciocomunista italiano (ricordate la sgangherata cordata di Italia Sovrana e Popolare?).

Tuttavia, là fuori, tutto è sovranismo rossobruno.

Oggi abbiamo una nuova reincarnazione del populismo sovranista rossobruno, questa volta in salsa slavata e omeopatica ecosocialista woke.

Date un’occhiata (attenzione: solo per stomaci forti) ai contenuti del libro di Schlein: nessun capitolo è dedicato al vero e unico problema fondamentale del paese, ossia la sua cronica incapacità a creare ricchezza. Il problema, secondo Schlein ma anche secondo tutti i sovranisti in salsa socialista o fascista (ma sono che versioni di uno stesso veleno), è la ridistribuzione della ricchezza.

Oggi, in Italia, chi parla solo di ridistribuzione è un reazionario, un aspirante accaparratore di voti, un demagogo di carriera, una persona che ha capito che l’unico modo per fare mobilità sociale (la propria) è vendere a caro prezzo agli italiani la luna nel pozzo.

È la stessa cultura (si fa per dire) politica che informa gli idioti slogan apparsi ovunque in Italia in questi giorni, come “Abbassiamo le armi, alziamo i salari“, come se i salari possano essere aumentati per decreto legge (tralasciamo l’inevitabile supporto alla Russia di Putin insito in tale messaggio propagandistico).

Festivàl di Sanremo: i vecchi gaudenti e i giovani plaudenti

Il festivàl (con l’accento così) di Sanremo è l’espressione più pura e spudorata delle pulsioni nostalgiche, passatiste, se non francamente gerontofile e, all’estremo dello spettro della perversione, necrofile del nostro ridicolo, inane, morente e dissociato paese. Un paese i cui cittadini, la maggioranza dei quali sopra i cinquant’anni, indulgono nella contemplazione estatica ed ebete delle loro e altrui decrepitezze, per trarne un godimento parafiliaco. Nel cervello dell’italiano prevale la certezza, inamovibile e inscalfibile, che la ricchezza, la bellezza, la stessa vita stiano solo in un passato tanto favoleggiato quanto, in realtà, mai esistito, e che il futuro sia esclusivamente foriero di cadute e peggio. Dietro questa ostensione di visi stirati, arti ortopedizzati, capelli trapiantati, si nascondono, a distanza di pochi centimetri di pelle ormai diafana, visceri dispeptici, cuori aritmici, cervelli bradipsichici. Nel baccanale geriatrico del festivàl, così saturo del cocciuto rifiuto di tramontare e morire, e da cui cionondimeno suppùra da ogni poro l’ipocrisia del “largo ai giovani”, i giovani sono, in realtà, mere comparse imposte dal politicamente corretto e corrotto di quella messa in scena museale, sono il contraltare servile di chi comanda veramente: i vecchi. Essi hanno tutto, e non vogliono di certo “trasmetterlo” alle nuove generazioni. Essi, i vecchi, hanno tutto l’esistente, anzi hanno preso anche quello che, materialmente, non avrebbero potuto prendersi, se non ci fosse stato lo Stato italiano a permetterglielo: cosa è il debito pubblico se non la sottrazione impunita di risorse al futuro dei giovani e di coloro che non sono ancora nati?

In fondo, al festivàl di Sanremo sta andando in scena la più sincera e plastica manifestazione della negazione del contrasto generazionale in atto nel paese, dell’accettazione supina e passiva delle giovani generazioni del loro ruolo subalterno e servile. Tutto questo, ovviamente, con un bel sorriso stampato in volto: il sorriso servile di chi si accontenta dei resti della festa.

La via della schiavitù: come lo Stato ha compromesso la democrazia in Italia

Quello che vedete qui in foto è un foglietto di un sindacato che sintetizza, in modo anche troppo brutale nella schiettezza delle sue rivendicazioni, il modo con cui gli italiani (quasi tutti) considerano il rapporto fisiologico e desiderabile tra Stato e cittadino. Secondo tale modo di pensare, preponderante nel Paese, lo Stato dovrebbe prendersi carico del destino economico di tutti i cittadini creando esso stesso reddito per loro. Lo Stato dovrebbe quindi o mantenere sine die i cittadini che non lavorano oppure (si noti, in seconda battuta) creare posti di lavoro per loro (non importa se utili per la collettività).
Come siamo giunti, in Italia, a una tale immorale degradazione servile del rapporto tra una cittadinanza che chiede prebende e uno Stato signorile che dovrebbe elargirle? Quello che sembra un pervertimento di natura antropologica è, alle sue origini, un pervertimento istituzionale: uno Stato eccessivamente invischiato negli affari economici dei cittadini, che impone un peso burocratico indegno e idiota a tutti gli agenti economici, e che ha in mano o che comunque dirige più o meno direttamente gran parte del Pil nazionale, debilita sé stesso e compromette in maniera irreparabile il rapporto con la cittadinanza, quindi la stessa democrazia.

Come ben descritto da Friedrich von Hayek, premio Nobel per l’economia, nel suo “La via della schiavitù” (https://amzn.eu/d/fhjfavH) lo Stato pianificatore e accentratore (agli estremi, lo stato socialista, nazista e fascista) non può essere democratico, ciò per il semplice motivo che le decisioni saranno prese da una minoranza di persone (un’élite politica) che stabiliranno arbitrariamente quali politiche adottare tra le varie disponibili, ciò che è giusto produrre e ciò che è meglio evitare di produrre, dove dover investire e dove, invece, evitare di investire. Ciò, come dimostrato dalla storia, non permette una corretta ed efficiente allocazione delle risorse e distrugge quindi valore, economie e crescita economica. Anziché affidare ai cittadini queste scelte, nel libero svolgersi delle forze del mercato (e della capacità degli agenti economici di capire meglio ciò che è richiesto dal mercato), lo Stato pianificatore e accentratore ingenera pian piano nei cittadini una degradante mentalità servile: dato che io, come cittadino, non posso nulla o quasi nulla come agente economico indipendente, allora ci pensi lo Stato a mantenermi!
Se questo sentire è massimo nello Stato socialista, nazista e fascista, una gradazione minore di veleno (ma non per questo meno letale nel lungo periodo) è presente nello Stato italiano e nella sua cittadinanza, le cui pulsioni sovraniste covano da sempre e che in questi anni, per colpa dello Stato italiano e della sua classe politica, stanno riemergendo in tutta la loro pericolosità per la democrazia e per il destino economico d’Italia.

La scuola è “bloccata”

Tutti siamo d’accordo che il futuro del nostro paese passa per il futuro della #scuola. Se ci fermiamo allo status quo, all’attuale condizione della scuola italiana non si può che prendere atto della grave situazione: l’Italia è, nei ranking internazionali, sotto tutti gli altri paesi europei e sviluppati (e, in certi casi, anche dei meno sviluppati) in termini di punteggi PISA per proficiency in matematica e italiano, la qualità dei nostri insegnati sembra essere inferiore e, quindi, la qualità dell’insegnamento nelle scuole italiane non è solo relativamente e mediamente bassa ma anche poco aggiornata rispetto alle richieste del mondo.

Ho letto con interesse il libro “La scuola bloccata” (https://amzn.eu/d/heAWE2K ), di Andrea Gavosto, Direttore della Fondazione Agnelli (https://www.fondazioneagnelli.it/la-fondazione/), che restituisce, nell’asciuttezza di poche pagine ma con l’acribia dei dati e dei riscontri empirici, uno scenario che suscita preoccupazione ma, forse, anche un filo di speranza in chi legge.

I problemi individuati da Andrea Gavosto sono, in sintesi, i seguenti:

  1. cicli scolastici “disfuzionali” (il passaggio da un ciclo a un altro crea una caduta delle #competenze; sarebbe quindi auspicabile un ciclo comune che portasse lo studente alla soglia della scuola secondaria di secondo grado);
  2. mancanza di orientamento (le scelte dello studente sono orientate troppo pesantemente dalla famiglia di origine e il passaggio da un ciclo scolastico all’altro è troppo “erratico”);
  3. gli insegnanti non sono formati né all’inizio della carriera (come criterio d’ingresso) né in itinere (ossia nel corso del lavoro);
  4. l’assunzione dei docenti non può essere fatta in autonomia dalle scuole, e ciò concorre a creare il mismatch fra domanda di determinati insegnamenti (penso soprattutto alle materie #STEM) e offerta di lavoro.
  5. la totale assenza di possibilità di carriera dei docenti all’interno dell’istituto scolastico (a cui si potrebbe porre rimedio con ruoli sotto-dirigenziali, ossia livelli intermedi di responsabilità tra i docenti e i dirigenti scolastici, con migliore trattamento economico);
  6. la durata delle ore di insegnamento (in Italia le ore di scuola dovrebbero essere aumentate con attività pomeridiane che permettano non solo di colmare eventuali lacune e fare attività di supporto, ma anche per rendere più distesa l’attività didattica del mattino).

In questi giorni mia figlia ha deciso la scuola superiore da frequentare, ma la scelta è stata fatta soprattutto dietro consigli aneddotici di conoscenti e la partecipazione agli open day, che sono occasione di marketing scolastico poco informativi ai fini di una scelta consapevole.

Per una scelta consapevole la scuola dovrebbe rendere disponibili alcuni dati:

  • esiti degli insegnamenti (punteggi #INVALSI medi dell’istituto per le varie materie);
  • percentuale di studenti che si iscrivono all’#università;
  • percentuale di studenti che superano il primo anno di università;
  • percentuale di laureati;
  • curricula dei docenti (anche se il fatto che la scuola non possa reclutare i docenti rappresenta un limite).

#Eduscopio (https://eduscopio.it/) cerca di restituire questi dati. Ma la domanda è: perché le scuole non lo fanno? E, anche, perché i genitori non li richiedono?

Il declino italiano risale agli anni Sessanta

Vedo molti post (ma è il convincimento di molti italiani) che riportano dati sulle prestazioni economiche italiane e che, in soldoni, vorrebbero convincerci che l’Italia, fino agli anni Ottanta e Novanta, era un paese economicamente di successo, che il suo sviluppo stava convergendo verso quello dei paesi sviluppati, che, in definitiva, tutto il male che è poi accaduto è stato dovuto a “cause esogene”. Queste sono state identificate nella nostra adesione all’Unione Europea e nel nostro ingresso nella zona euro.

Come detto, questo modo di vedere le cose è assai diffuso, non soltanto tra la gente comune (che indulge facilmente al “si stava meglio ai miei tempi”), ma anche (e purtroppo) tra sedicenti economisti italiani, soprattutto (ma non solo) di destra (Bagnai e Borghi, per esempio. Anche se definire Borghi un economista mi sembra azzardato). Ma la realtà del declino italiano è assai differente e assai più banale. Non c’è stata nessuna spectre, nessuna eminenza grigia, nessun ordito, nessuna “intelligenza col nemico”, ma la nostra secolare indigenza produttiva e culturale e una classe politica (la Democrazia Cristiana, ma anche il Partito Socialista Italiano, il Partito Comunista Italiano, e gli altri) che ha occupato le istituzioni creando, negli anni, enormi economie parassitarie che hanno strangolato, nel tempo, le economie sane del Paese.

Ho letto recentemente “Capitalismo assistenziale” (https://www.amazon.it/capitalismo…/dp/B00GYRZSWS), libro pubblicato nel 1976, di Giorgio Galli e Alessandra Nannei, che è una testimonianza di un declino che proprio in quegli anni avrebbe avuto i prodromi. Alle crisi petrolifere degli anni Settanta la classe politica italiana (la cosiddetta prima repubblica) ha risposto a colpi di inflazione selvaggia e deprezzamento della lira, nonché facendo ricorso all’assunzione in massa di milioni di persone nel pubblico impiego, al foraggiamento di industrie private e pubbliche che non creavano profitti ma distruggevano risorse fiscali (di per sé scarse), all’utilizzo farisaico del termine “austerità”, quando aveva in realtà proceduto all’ingentissimo trasferimento di risorse dai produttivi (lavoratori, operai, aziende sane) ai parassiti (élite burocratica-amministrativa dello Stato, dipendenti pubblici, dirigenti di imprese statali, parastatali o private conniventi con lo Stato, élite economico-speculativa). In quegli anni, ciò che viene chiamato nel libro “lavoro improduttivo” prese a crescere così tanto da aver poi posto le basi per una compromissione duratura delle stesse possibilità di sviluppo economico e sociale d’Italia.

Oggi l’Italia si trova quasi al termine di questo percorso di sottosviluppo: ciò che agli occhi dei politici del secondo dopoguerra sembrò una crescita economica e sociale inarrestabile in effetti si interruppe nel lontano 1963, allorché il Paese divenne ostaggio di una élite politica che impoverì il Paese delle risorse accumulate durante il boom. Da quel momento la classe politica ha instaurato coi cittadini un rapporto basato sulla reciproca deresponsabilizzazione: tu mi eleggi e io ti permetto di andare in pensione a 35 anni (#babypensioni); tu mi eleggi e io ti do anticipi di pensionamento (#Quota100); tu mi eleggi e io ti do un trattamento fiscale di favore (#flattax) ecc. Il cittadino italiano è stato degradato al rango di postulante e parassita che attende pazientemente le elargizioni del signorotto politico di turno. Come dico in “Sovranismo – un destino idiota” – https://amzn.eu/d/3bQHB8r – nei decenni è stata deliberatamente instillata nella mente degli italiani una morale di parassitismo anziché un afflato all’autonomia.

Un Paese agonizzante, ma tutti parlano di POS

In questi giorni ho dovuto recarmi più volte all’Ospedale pediatrico Gaslini di Genova. Mio figlio, per sfortuna, si era procurato una rottura scomposta dell’omero ed è stato sottoposto a due interventi chirurgici nell’arco di due giorni. Tutto bene. Come molti sanno, il Gaslini è un punto di riferimento nazionale per la medicina e la chirurgia pediatrica: qui arrivano italiani da tutta Italia. Infatti, molte sono le persone che dalla Sicilia, la Campania e la Calabria si recano nel nosocomio pediatrico genovese per avere cure e trattamenti per i loro figli che non riescono ad avere nella loro regione d’origine.

Qualcuno potrebbe quindi alzare alti ali contro le disparità regionali: lo Stato, infatti, è tenuto a garantire su tutto il territorio nazionale equivalenti standard qualitativi e quantitativi, ma a parte questa mera proclamazione di princìpi sappiamo bene che i servizi a Reggio Calabria non sono equivalenti a quelli a Bolzano. Tutta colpa dello Stato, allora?

Non basta proclamare princìpi per renderli effettivi. L’Italia in questi ultimi trent’anni ha accumulato un gap di crescita economica rispetto a paesi omologhi nell’ordine di decine di punti percentuali di crescita del PIL (rispetto agli Stati Uniti di oltre il 50%). Questo perché lo Stato non ha speso abbastanza? No, la spesa pubblica italiana rispetto al PIL ma anche in termini assoluti pro-capite è tra le più alte al mondo. L’urgenza è permettere al Paese di fare crescita economica.

Se non verranno fatte le giuste e sacrosante liberalizzazioni nel settore di servizi e professioni, e mi riferisco a farmacie, taxi, concessionari di beni pubblici, e molti altri, se non verranno ridotti gli oneri burocratici e fiscali a carico di aziende e cittadini, se si smetterà una buona volta di dare aiuti alle piccole aziende improduttive e italiane con favori clientelari come la flat tax, se non si migliorerà il capitale sociale, l’istruzione media, il numero di laureati e di dottorati, se non si permetterà, in poche parole, ai giovani di dare il loro contributo, se non si avrà meritocrazia nelle aziende e negli enti pubblici, questo Paese è destinato a non avere più servizi pubblici, a non avere un sistema pensionistico a ripartizione, a declinare più o meno velocemente nel gruppo di Paesi letteralmente poveri.

Ma cosa trattiene i politici italiani dal fare queste riforme? In fondo, una cosa, essenzialmente: la ricchezza relativa della generazione dei babyboomer, che i nostri politici, in questi ultimi trent’anni, si sono incaricati di conservare costi quel che costi. Anche se il costo è ed è stato letteralmente il futuro dei giovani e d’Italia.

Sovranismo – un destino idiota


Dopo anni di lavoro esce questo libro. È il prodotto di un profondo ripensamento su ciò che credevo essere vere e proprie verità incontrovertibili e che si sono rivelate, poi, delle patenti menzogne. Perché anche io sono stato sovranista, nel senso più deteriore del termine, ossia un nazionalista che non ha il coraggio di esserlo (una specie di nazionalista passivo-aggressivo), un “credente” in una dottrina politica senza fondamenti razionali, logici e fattuali, una persona sprovvista di qualsiasi cognizione di fatti economici e storici, e che malgrado tale grottesca ignoranza non si peritava di parlare con tono saputo di quelle stesse cose delle quali sarebbe stato molto più saggio e igienico tacere, figurarsi farne i presupposti per un’ideologia politica.

Ma ciò che importa nella vita non è la coerenza (che richiede molto spesso un tributo di idiozia a chi cocciutamente la persegue), ma la ricerca della verità. E la verità pretende da chi la ricerca un tributo di umiltà, perseveranza e pazienza. Di solitudine, a volte.

Sovranismo – un destino idiota” è disponibile qui e presto in tutte le piattaforme online. Sarà disponibile anche la versione e-book.

Alcune persone mi hanno chiesto il significato della frase in greco sul retro di copertina. Questo motto, traslitterato, “ti moi syn douloisin”, ossia “che ho a che fare io con gli schiavi?”, fu l’emblema che contraddistinse la Piero Gobetti Editore, dal 1923 al 1929. Un motto greco suggerito da Augusto Monti a Gobetti quale aperta sfida culturale al fascismo.

Qualcuno potrebbe chiedersi del motivo per il quale usare, oggi, il motto gobettiano, e chi siano oggigiorno, mutatis mutandis, gli schiavi.

Gli schiavi sono, oggi, tutti gli italiani che non vivono di rendita, coloro che non hanno le giuste entrature, i giovani che vorrebbero un Paese più meritocratico, le aziende sane e innovative che, malgrado la politica, il fisco, la burocrazia, mandano avanti il Paese, le persone meno abbienti che vorrebbero migliorarsi, gli immigrati volenterosi di integrarsi, i nostri figli che meriterebbero una scuola migliore e migliori aspettative per il loro futuro. Una minoranza del Paese, ma la parte più viva e aperta al futuro. L’unica per la quale nutrire un po’ di speranza.

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Tutto il resto è nostalgia, passatismo, livore, ignoranza, regresso, irrazionalismo. In una parola, sovranismo.

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L’egemonia dell’idiozia economica

In La regina e il cavallo – Quattro mosse contro il declino (https://www.amazon.it/regina-cavallo…/dp/8842079766) di Salvatore Rossi (edito nel 2006) si legge:

[…] una manovra del saldo di bilancio pubblico di segno espansivo, ad esempio mediante una generalizzata detassazione dell’economia non compensata da riduzioni di spesa pubblica, posto che sia finanziariamente sostenibile, aiuterebbe a risolvere i problemi del sistema produttivo italiano?
Risposta: no. Quei problemi […] non discendono da una temporanea scarsità di domanda, ma da un’inadeguatezza dell’offerta; uno stimolo alla domanda interna sortirebbe probabilmente l’effetto di orientarla ancor più verso le importazioni. L’evidenza empirica disponibile in questo caso è netta […]

I sovranisti nostrani, che vanno dal partito di Meloni fino allo sgangherato ma rampante sovranismo extraparlamentare, evocando le spese in deficit, il protezionismo e la cornucopia della cosiddetta sovranità monetaria, fino all’uscita dell’Italia dalla Unione europea, non fanno che certificare la loro profonda e grottesca ignoranza dei dati empirici e anche il fatto di essere, loro, i primi nemici del Paese