L’espressione “mutazione antropologica” usata da Massimo Recalcati ne Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, pagg. 153, Euro 14) rende conto del tipo psicosociale prevalente nella società capitalistiche: non più le nevrosi ossessive, tipiche di un retroterra edipico, di una contrapposizione padri-figli otto-novecentesca, ma disturbi ascrivibili all’autoreferenzialità autistica di personalità narcisistiche; disturbi quali le anoressie, le bulimie, le abulie, le depressioni, che assumono tra i giovani una diffusione pressoché endemica. Perché accade tutto questo?, si chiede lo psicanalista lacaniano. Il padre come figura altra e alta, come grande Altro, sia questo il proprio padre naturale oppure un’istituzione, un partito, un’ideologia, una religione (tutto può essere un padre, disse Lacan), è “evaporato”, e poco se non nulla resta della sua funzione normativa, formativa, educativa: il soglio di san Pietro è vuoto, ci dice Recalcati, e nulla potrà colmare questa radicale mancanza. Non si tratta qui di rimpiangere il vecchio pater familias o, peggio, immalinconirsi per la sua assenza. Anche Telemaco è esposto a tale rischio, tra la malinconia dovuta a questa radicale mancanza e il rischio di idealizzare il padre. E anche noi, figli dei padri ma, anche, padri dei figli, siamo tra questi due fuochi: l’adesione fideistica, acritica, automatica al Padre o alla tradizione, o a una sua imago idealizzata e sclerotizzata, e il suo radicale rifiuto che si configura nell’anti-edipo, tra un non ben compreso e definito “desiderio liberato”, avulso da qualsiasi dinamica con l’Altro, e il movimento dostoevskiano colpa/responsabilità. Ma il “desiderio liberato” di sessantottina memoria era inscritto in una dinamica collettiva in cui l’Altro era controparte irrinunciabile e formativa; oggi è cooptato, digerito e riutilizzato dal discorso del capitalista, questo nuovo grande Altro (ma svuotato d’ogni finalità educativa o, se si vuole, portatore di un’educazione che è l’hybris dell’assenza di ogni limite, negatore del principio di realtà), al fine di creare consumatori ligi al compito di consumare-consumarsi. Il super-ego del nevrotico diceva: “Tu non devi godere! Devi posticipare il godimento!”; quello della personalità narcisistica ora dice: “Devi godere, ora, adesso!”. Ma se manca il No! del padre, se i padri sono sempre più simili ai figli e vogliono emularne i comportamenti, i gesti, i gusti, come possono i figli individualizzarsi, farsi individuo, soggettivizzarsi, in un processo che necessiterebbe dialettica con un Altro solido, presente, ma in cui questo è invece ormai irreversibilmente liquido, latitante? Come introdurre il concetto di limite perché i figli non siano presi dal vortice del godimento senza desiderio, del godimento mortale, dell’assuefazione, ossia dal discorso del capitalista? Qui Recalcati ribalta l’orizzonte definendo il padre una strutturale “assenza presente”: la contrapposizione edipica e l’adesione acritica ai padri sono movimenti speculari con un medesimo risultato, ossia rimanere legati all’imago paterna; ma l’unico modo per disfarsi dei padri è servirsene, ammoniva a suo tempo Lacan e, aggiunge Recalcati, bisogna saper ereditare, diventare eredi. Cosa vuol dire ereditare? Perché Telemaco è il “giusto erede”?
Unire la Legge al desiderio affinché le nuove generazioni possano desiderare: attendere dal mare il ritorno del Padre portatore della Legge e della Parola, percepire questa mancanza come un’assenza sempre presente per non nutrire nei suoi confronti il rancore dell’orfananza (Gesù promise: «Non vi lascerò orfani; tornerò a voi» (Gv 14,18); questo fa Telemaco. E la madre Penelope alimenta l’amore e la devozione per il padre ricordando al figlio che Odisseo è lontano per dovere, a malincuore, e non per la mera gloria personale. Ulisse stesso, non sfuggendo mai alla sua responsabilità paterna, nell’Iliade si presenta come padre di Telemaco e non come Re di Itaca: il padre definito attraverso il figlio, il figlio attraverso il padre, in un movimento in cui il soggetto non può trascendere dall’altro per dire “Io sono”, in cui nessuna autodefinizione positiva è possibile, perché la malattia più grande è quella di un Io che si crede indipendente, autopoietico, non riconoscente il debito dovuto ai padri e alle generazioni passate. E colui che si sente debitore è protetto dal delirio dell’Io che vorrebbe essere tutto: la “sindrome di Peter Pan”, ove “Pan” non a caso sta per tutto, è comune tra gli adulti, i quali vivono con frustrazione lo stesso processo di individualizzazione coltivando in sé stessi l’illusione di poter ancora essere e diventare “tutto”, di poter ricominciare “da capo” in qualsiasi momento, portando innanzi il vessillo dell’Io. Ma l’Io è un altro, come scrisse Arthur Rimbaud, e l’Io non è padrone in casa propria, come scrisse Sigmund Freud. Perché noi siamo “mancanze ad essere”, a dirla con Lacan; e Telemaco accetta la sfida, non rifugge questa costitutiva incolmabile insufficienza ontologica cercando di irrobustire ortopedicamente un Io che non sono io, un impostore bell’e buono, attraverso approcci edipici o antiedipici specularmente equivalenti. Unire tradizione e il debito dovuto ai padri alla promessa di un futuro, di un regno, in cui i Padri non siano più né educatori irrigiditi da ideologie o dottrine profferite dagli amboni, né inconsistenti ectoplasmi svuotati di ogni funzione educativa, ma exempla per ciò che sono e non per ciò che dicono di essere.
http://www.ibs.it/code/9788807172557/recalcati-massimo/complesso-di-telemaco-genitori.html
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